1.4.2.4.2 Paralisi otogena del nervo faciale

1.4.2.4.2 Paralisi otogena del nervo faciale

La paralisi otogena del nervo faciale può complicare un’OMA per l’estensione della flogosi infettiva al nervo, più spesso in presenza di una deiscenza anatomica della parete ossea lungo il tratto orizzontale del canale di Fallopio (Fig. 3), reperto presente in una percentuale variabile dal 5-50% dei soggetti quale variante anatomica.

Il quadro clinico è caratterizzato dalla presenza di segni di paralisi periferica completa omolaterale all’OMA. L’indagine diagnostica mediante TC consente di definire l’estensione della patologia infiammatoria acuta “complicata” nonché di escludere eventuali complicanze endocraniche. Il trattamento prevede l’esecuzione di una paracentesi, con prelievo di materiale purulento per esame colturale, associata allantibiotico-terapia ad ampio spettro d’azione per via parenterale, previo ricovero ospedaliero. Anche la patologia infiammatoria cronica colesteatomatosa può complicarsi con una paralisi periferica completa del nervo faciale (Fig. 4), ad esordio solitamente improvviso, il cui trattamento consiste nell’esecuzione di un intervento chirurgico di timpanoplastica, alla scopo di eradicare la patologia infiammatoria cronica dalle cavità dell’orecchio medio (Fig. 4).


Fig. 3. TC; scansione assiale che mostra la presenza di un’otomastoidite sinistra e di una deiscenza del faciale (freccia) con conseguente temporanea paralisi.


Fig. 4. Otite media cronica colesteatomatosa destra: (a) scansione TC assiale; ( b) scansione TC coronale.

Fig. 5. TC rocche e mastoidi: scansione coronale (a) e assiale (b) in otite media acuta con fistola del canale semicircolare laterale (freccia nera).

1.4.2.4.3 Labirintite

Clinicamente si manifesta con una violenta crisi di vertigine oggettiva rotatoria nel corso di un’otite media acuta, di origine virale o batterica e si correla alla propagazione dell’infezione all’orecchio interno attraverso la finestra ovale o rotonda. Il trattamento prevede, oltre alla terapia medica antibiotica dell’OMA, l’esecuzione di una paracentesi.

Anche l’otite media cronica colesteatomatosa può essere responsabile della comparsa di vertigine rotatoria in conseguenza della comparsa di una lesione erosiva a carico del canale semi-circolare laterale (Fig. 5). In seguito alla compressione sul condotto uditivo esterno corrispondente all’orecchio patologico, si osserva la comparsa d’intensa vertigine con un nistagmo spontaneo orizzontale-rotatorio diretto verso il lato leso (segno della fistola). L’iter diagnostico prevede lo studio mediante TC delle rocche e mastoidi; il trattamento consiste nell’esecuzione di un intervento chirurgico di timpanoplastica, alla scopo di eradicare la patologia infiammatoria cronica dalle cavità dell’orecchio medio.


Complicanze endocraniche

Con l’avvento della terapia antibiotica l’incidenza delle complicanze endocraniche causate dall’otite media acuta o cronica, si è considerevolmente ridotta. Poiché la mortalità ad esse correlata non è però altrettanto significativamente diminuita, la loro diagnosi precoce resta l’aspetto più rilevante ai fini di garantire un trattamento efficace. In ordine di frequenza sono da considerarsi la meningite otogena, l’ascesso cerebrale e la tromboflebite del seno laterale. Molto rari sono i casi di empiema extra e sub-durale.

1.4.2.4.4 Meningite otogena

La meningite secondaria a un’otite media acuta è generalmente causata da un’infezione da S. Pneumoniae e compare, nella maggior parte dei casi, nei primi 8 giorni successivi all’esordio dell’otite acuta.

La vaccinazione antihaemophilus ha considerevolmente modificato la batteriologia dell’otite media acuta e, di conseguenza, quella della meningite purulenta. La via di propagazione dall’orecchio medio alle meningi è generalmente rappresentata dalla via ematica, non potendosi però escludere una diffusione per contiguità attraverso una soluzione di continuo del tegmen (Figg. 1 e 2) o una malformazione dell’acquedotto di Fallopio.


Fig. 1. TC delle rocche e mastoidi: scansioni coronali (a,b,c) che mostrano una flogosi dell’orecchio medio con iniziale erosione del tegmen tympani.


Fig. 2. Otite media con segni di flogosi nella cassa timpanica destra ed evidente erosione completa del tegmen timpani.


Anche nel caso dell’otite media cronica colesteatomatosa è possibile la comparsa di una meningite purulenta, generalmente da germi Gram-, Proteus, Pseudomonas A. o anaerobi. La diagnosi, in presenza dei segni/sintomi clinici sospetti per la presenza di una meningite quali cefalea, stato febbrile, rigidità nucale, alterazione dello stato di coscienza, deve sistematicamente prevedere la ricerca di segni locali di infezione a carico dell’orecchio medio, anche in assenza di dati anamnestici che indichino chiaramente l’esistenza di una recente pregressa otite media acuta/cronica.

L’iter diagnostico prevede l’esecuzione di una rachicentesi, di una TC cerebrale, di una valutazione obiettiva completa dei distretti ORL: il sospetto clinico-obiettivo di una causa otologica della meningite richiede inoltre l’esecuzione di una TC delle rocche-mastoidi.

La terapia medica antibiotica e steroidea, modulata in relazione all’esito dell’esame colturale del liquor, va integrata, nei casi in cui non si assista a un rapido miglioramento delle condizioni generali e neurologiche del paziente, con la terapia chirurgica dell’otite media: essa si può limitare all’esecuzione di una paracentesi o può richiedere una mastoidectomia semplice, allo scopo di consentire una bonifica della sede primaria di infezione suppurativa.

1.4.2.4.5 Ascesso cerebrale

Relativamente raro, esso costituisce una vera urgenza neuro-chirurgica, a causa delle conseguenze dell’aumento della pressione endocranica e dell’effetto-massa che esso determina nel contesto del parenchima cerebrale: se non tempestivamente trattato, la morbidità e la mortalità ad esso correlate sono rilevanti.

L’ascesso cerebrale è generalmente secondario a un’otite o a una mastoidite cronica, di tipo colesteatomatoso; raramente è conseguente a una meningite. La sede più spesso coinvolta per contiguità è la parte inferiore del lobo temporale (Fig. 3), il cervelletto è piuttosto interessato a seguito di una trombosi delle vene emissarie o diploiche.

I germi più spesso coinvolti sono gli streptococchi e gli anaerobi.

La triade sintomatologica, febbre, cefalea e segni neurologici focali, è altamente evocativa ma, almeno nel 50% dei casi mancano i segni di una sindrome infettiva e il quadro evolve rapidamente con una sintomatologia correlata all’ipertensione endocranica.

La TC cerebrale senza/con m.d.c. consente la localizzazione esatta della lesione e la sua “stadiazione”. La RMN è più sensibile: in T1 la periferia lesionale appare ipointensa rispetto al parenchima cerebrale a causa dell’edema, a comprendere una zona ancora più ipointensa corrisponde al centro necrotico della lesione. Tra le due è presente una zona circolare iso-iperintensa che corrisponde alla parete dell’ascesso. In T2 l’area edematosa appare iper-intensa, il centro necrotico è iso-iperintenso mentre la parete è ipointensa.: l’iniezione del gadolinio accentua la differenza tra il centro dell’ascesso, la sua parete e l’edema peri-lesionale.

Il trattamento neuro-chirurgico ha lo scopo di ridurre l’ipertensione endocranica, limitandosi a una semplice puntura evacuatrice nel caso di un ascesso nel lobo temporale, o procedendo all’exeresi chirurgica qualora esso si trovi nella fossa cranica posteriore. La prima manovra, poco invasiva, rapida e di semplice esecuzione, consente una rapida riduzione della massa intra-cranica.L’exeresi dell’ascesso è indicata nel caso di una sua origine micotica o qualora esso contenga aria, suggestivo dell’esistenza di una breccia durale.


Fig. 3. RMN - Ascesso cerebrale del lobo temporale sinistro, con ring enhancement dopo somministrazione di mezzo di contrasto.


Il trattamento antibiotico esclusivo, modulato in funzione del germe responsabile individuato dal prelievo colturale intra-lesionale, è consigliabile solo nel caso di lesioni ascessuali di piccole dimensioni, <1,5-2 cm; per lesioni di dimensioni maggiori, l’antibiotico-terapia integra la terapia chirurgica (associazione cefalosporine 3a generazione, metronidazolo, aminoglicosidi, per il trattamento di una flora batterica mista aerobia-anaerobia). La terapia antibiotica viene somministrata per via parenterale per 6 settimane.

Il trattamento con steroidi ha infine lo scopo di ridurre l’edema cerebrale e quindi di limitare le sequele neurologiche.

1.4.2.4.6 Tromboflebite del seno laterale (TSL)

La tromboflebite del seno laterale è generalmente causata da un’infezione acuta o cronica dell’orecchio medio. Il quadro clinico comprende una grave sindrome infettiva associata a segni/sintomi di irritazione meningo-encefalica con turbe dello stato di coscienza, otalgia, cefalea, edema mastoideo (segno di Griesinger) per trombosi della vena emissaria mastoidea.

Lo studio neuro-radiologico cerebrale e delle rocche-mastoidi prevede sia la TC che la RMN.

La TC evidenzia l’assenza di opacizzazione del seno laterale dopo m.d.c. nonché il coinvolgimento flogistico dell’orecchio medio. La RMN documenta la trombosi e la sua estensione: allo stadio precoce la trombosi è iso-intensa in T1 e ipo-intensa in T2, dopo qualche giorno essa appare iper-intensa in T1 e T2. L’angio-RM conferma la diagnosi di occlusione venosa (Fig. 4).

La TSL si può complicare con l’estensione della trombosi alla vena giugulare interna, con embolia polmonare settica (sindrome di Lemierre), o ad altri seni venosi endocranici.

La diagnosi comprende la ricerca di eventuali fattori di rischio pro-trombotici, soprattutto nei soggetti in giovane età. Gli stati pre-trombotici possono essere congeniti, quale la resistenza alla proteina C attivata per mutazione del fattore V di Leiden (prevalenza del 20% nei soggetti giovani con trombosi venosa cerebrale rispetto al 2-3% nella popolazione generale) o acquisiti (gravidanza, malattia ematologica o sistemica, farmaci).

Il trattamento della TSL è diventato recentemente più conservativo, in relazione alla diagnosi resa più precoce dalla radio-diagnostica.


Fig. 4. L’angio-RM (a,b) mostra la trombosi del seno di sinistra e successiva ricanalizzazione.


APPROFONDIMENTO


Otite media e meningite otogena

Le complicanze dell’otite acuta sono rare, verificandosi in meno di un paziente ogni 4000 e le più gravi sono rappresentate da mastoidite, ascesso extra/sub-durale e meningite; le complicanze intracraniche in particolare hanno un tasso di incidenza dello 0,36%. La meningite, nello specifico, pur essendo la più frequente complicanza intracranica, ha una incidenza dello 0,18% con un tasso di mortalità variabile in relazione all’agente infettivo, dal 7 al 60%.


Quali sono i segni di una complicanza intracranica di un’otite

Sono spesso subdoli e compaiono tardivamente nel corso della malattia. Febbre (di grado basso e intermittente), indolenzimento del collo, otalgia, torcicollo (in caso di trombosi del seno laterale). La presenza di cefalea e febbre oltre all’otalgia non è indicativa di meningite in quanto i sintomi cardinali sono: cefalea, febbre, irrigidimento del collo, fotofobia e modificazioni dello stato mentale. La sola cefalea non può considerarsi indice di una sospetta meningite, potendosi associare tale effetto con la iperpiressia.

Il problema della corretta diagnosi di meningite è ancora discusso. La triade classica è febbre, irrigidimento nucale e modificazione dello stato mentale. Secondo Attia e coll. (The rational clinical examination. Does this adult patient have acute meningitis? JAMA 282: 175-181, 1999), la presenza di tutti e tre i segni non comprende il 100% dei pazienti e la meningite si può escludere quando tutti e tre sono assenti. Ma afferma anche che in un paziente con febbre e cefalea, l’assenza della rigidità nucale “may essentially exclude meningitis”. Come prima riportato, un recente studio (Ostergaad C, Hoiby N, Konradsen HB, Samuelsson S Prehospital diagnostic and therapeutic management of otogenic Streptooccus pneumoniae meningitis. Scand J Infectious Diseases, 38: 172-180, 2006), ha evidenziato che la febbre (98%) e l’alterazione di coscienza (98%) sono i sintomi pre-ricovero più frequenti, rispetto a otalgia (71%), perforazione timpanica (38%) e rigidità nucale (25%).

Ostergard e coll. (2005) riportano che al momento del ricovero per meningite, i sintomi più comuni sono febbre e alterazione dello stato mentale (93% e 94% dei casi), mentre la cefalea era presente solo nel 41% dei casi. La conclusione di questo lavoro è che la meningite “should be considered in patients presenting without nucal rigidity but with fever and altered mental status”.

Va in ogni caso ricordato che nella letteratura ORL viene data particolare importanza alla presenza della rigidità nucale per la diagnosi di meningite (v. Baylor College of Medicine, 2001). Lo sviluppo di una meningite prevede la diffusione di microrganismi alle leptomeningi; sostanzialmente si devono considerare due modalità di accesso:

1) in una i microrganismi raggiungono gli spazi sub aracnoidei con un meccanismo tipo Cavallo di Troia (e quindi dall’interno);

2) in un’altra “sfondano” dall’esterno le difese anatomiche encefaliche.


1) La prima è una modalità di diffusione più rapida, ma clinicamente più silente perché i microrganismi pur raggiungendo il liquor rapidamente, per via ematica (attraverso i plessi corioidei) vanno incontro ad una reazione infiammatoria più blanda proprio per le peculiarità immunologiche del SNC, condizione che permette anche una rapida moltiplicazione; una volta però raggiunte e colonizzate le meningi, la BEE s’infiamma e si dilata creando altri punti di accesso (anche se a quel punto la colonizzazione può considerarsi completa). È anche la via di accesso delle infezioni distanti, in particolare delle alte vie respiratorie.

2) La seconda via prevede l’accesso alle leptomeningi attraverso un punto di attacco esterno che tende a demolire, fino allo “sfondamento”, le barriere encefaliche: questo processo è in linea di massima più lungo (proprio perché richiede la persistenza del fattore lesivo) ma clinicamente più evidente perché l’evento infiammatorio deve essere tale da favorire la progressione locale (per contiguità). Le meningi vengono perciò in questo caso aggredite dall’esterno; è ovvio che ogni via preferenziale anatomica persistente (finestra rotonda, labirinto, orecchio interno, nervi cranici) o secondaria (trauma, lesioni osteolitiche, interventi chirurgici) accelerano questo processo. È la via di accesso delle infezioni prossime alle meningi. Difetti dell’integrità del tegmen sono riscontrati fino al 20% dei casi in corso di autopsia; se molti di questi possono essere acquisiti, probabilmente la maggioranza è la conseguenza di incompleta fusione durante lo sviluppo.


Non è facile stabilire quale delle due vie sia più prognosticamente sfavorevole, anche perché è il tipo di microrganismo che fa la differenza; si può osservare però che mentre nel primo caso un’otite può precedere, accompagnare o addirittura essere successiva alla diffusione dei microrganismi negli spazi liquorali, nella seconda ipotesi, l’otite (ammesso ovviamente che questa sia la principale sorgente dell’infezione) deve precedere la meningite.

Meningite otogena. Il circolo ematico dell’orecchio è tale da non favorire la propagazione diretta al SNC, per cui la diffusione dei microrganismi in caso di batteriemia non risente della spinta pressoria del circolo arterioso; le vie ematiche di diffusione sono soprattutto venose e, perché la carica infettante “ristagni” in prossimità delle meningi, deve crearsi un contesto trombo flebitico. La diffusione per continuità e contiguità attraversa strutture ossee e spazi membranosi (orecchio interno cocleare e vestibolare) preformati (deiscenze congenite, finestra rotonda, VII e VIII nc per risalita) o neoformati (traumi, osteolisi, interventi chirurgici). In una casistica di 79 casi, il 40% da otite acuta, 15% da otite cronica non colesteatomatosa, 21% da otite cronica colesteatomatosa, 17% da fratture traumatiche dell’osso temporale, il 5% da cause chirurgiche e congenite (Roller C. 2000-2005)

Meningite non-otogena. La diffusione arteriosa avviene anche da siti distanti, da siti però che abbiano il circolo encefalico dei plessi corioidee “a valle” del sito d’infezione, quindi con una spinta pressoria favorevole; caso particolare è l’infezione del rino-faringe che si “sposta” attraverso i tessuti tra gli spazi intercellulari fino a “cadere” nel circolo arterioso che la porterà ai plessi corioidei e quindi fino al liquido cefalorachidiano; è una modalità tipica della Neisseria meningitidis e della Streptococcus pneumoniae e che può coinvolgere contemporaneamente anche l’orecchio medio. Lo Streptococcus pneumoniae risulta però anche il primo microrganismo coinvolto nelle meningiti squisitamente otogene.

Meningite da Streptococcus pneumaniae. Secondo studi molto recenti, lo S.pneumoniae o pneumococco è in causa in circa il 50% delle meningiti batteriche negli USA (Damergis JA, Chee K, Amitai A: Otogenic pneumococcal meningitis with pneumocephalus. J Emerg Med Jun 2008). Secondo questo studio, dopo l’avvento degli antibiotici, la complicanza meningitica di un’otite era un evento raro; la diffusione degli immunosoppressori e l’aumento delle resistenze agli antibiotici, potrà contribuire ad un aumento delle complicazione dell’otite media, simile all’era pre-antibiotici.In questo studio viene presentato il caso di una donna di 33 anni in terapia con azatioprina per morbo di Crohn, in terapia antibiotica per otite media che presenta cefalea progressiva e successivo sviluppo di meningite pneumococcica con pneumoencefalo.

Timing della terapia. Per quanto riguarda il timing ideale della terapia antibiotica, la letteratura riporta differenze prognostiche, con meningite in corso, per intervalli di 6-8 ore (da 4 a 13,6 a seconda della situazione clinica di partenza) nell’inizio della terapia (non risultano differenze significative per intervalli inferiori); mentre nelle fasi precoci, alcuni studi e per alcuni microrganismi in particolare, la letteratura riporta differenze non significative anche per ritardi di più giorni (!); per precoce si può intendere l’assenza di turbe della coscienza. Un lavoro molto recente (De Heckenberg e coll, (Medicine, 2008) nega l’opportunità di un trattamento antibiotico pre-ricovero, sia per la difficoltà di una corretta identificazione del tipo di meningite (pneumococcica, meningococcica...) in quanto i sintomi non sono specifici, ma soprattutto perché non è chiaro se questa è di reale beneficio. Al contrario è essenziale non venga ritardata la ABT in ospedale e che questa non venga ritardata per lo svolgimento di indagini neuro radiologiche. La terapia antibiotica, in presenza di un quadro clinico tipico, andrebbe iniziata dopo la puntura lombare, a meno che non vi siano situazioni che portano ad un possibile ritardo. (Johnson R F, 2001).

Nell’otite un follow-up di 48-72 ore, in assenza di complicanze e in fase iniziale, è ragionevole anche senza terapia antibiotica. Per otiti in stadio avanzato e sotto terapia antibiotica, un follow-up di 24 ore può considerarsi ottimale.

La ABT tipica per un’otite è la penicillina e derivati (amoxicillina...); studi su modelli animali (Sato e coll, 1995) sconsigliano in caso di otite da Streptococco pneumoniae l’uso precoce dell’antibiotico, in quanto questo accelererebbe l’infiammazione. In ogni caso valgono anche negli adulti con otite acuta occasionale, le stesse raccomandazione dei bambini sopra i due anni “non a rischio”, cioè “deferring antibiotic therapy”. Un recentissimo lavoro pubblicato sul BMJ (ottobre 2007), dopo una analisi di 3,36 milioni di episodi di infezioni delle alte vie respiratorie (comprese tonsilliti e otiti) sulla popolazione del Regno Unito (1 luglio 1991 al 30 giugno 2001), conclude che “la ABT non è giustificata per ridurre il rischio di complicanze gravi per infezioni del tratto respiratorio, faringiti, otite media”. Il dosaggio dell’ABT per il trattamento dell’otite acuta non è sufficiente a curare una meningite in corso, ma l’impiego sembra contrastarne l’insorgenza, anche se in maniera modesta.

Che il trattamento antibiotico non sia in grado di prevenire lo sviluppo di complicanze otogeniche intracraniche è la conclusione di un altro studio recente (Migirov L, Duvdevani S, Kronenberg J: Otogenic intracranial complications: a review of 28 cases. Acta Otolaryngol 2005: 125: 819-22). In questa revisione di 28 soggetti che avevano sviluppato complicanze intracraniche da otite media, il 42,9% aveva seguito un trattamento AB prima dell’ammissione all’ospedale. Nel 40% dei casi il germe in causa era lo S.pneumoniae. in questa casistica non furono osservati casi mortali, ma la presenza di sequele (ipoacusia, emiparesi, idrocefalo, ritardo mentale, polineuropatia, epilessia) risultò elevata (71,4%). Il riscontro intraoperatorio di colesteatoma risultò frequentemente associato con ascesso intracerebrale e trombosi dei seni.

Nel lavoro già citato di Ostergaad e coll, 2006), il decorso clinico si è dimostrato più grave negli adulti rispetto ai bambini e così la comparsa di sequele. Il trattamento pre-ricovero con AB non era associato ad un outcome più favorevole della meningite pneumococcica otogena, anche se questa sembra predominante in pazienti che non hanno ricevuto una terapia AB o questa era inadeguata.

1.4.2.5 Otosclerosi

Definizione. L’otosclerosi, o otospongiosi, è dovuta ad un processo distrofico primitivo della capsula otica che, per la sua prevalente sede in corrispondenza della finestra ovale (fissula ante fenestram) determina l’anchilosi della platina della staffa ed una ipoacusia ingravescente. L’ipoacusia è frequentemente bilaterale ed in alcuni soggetti può diventare grave.

Epidemiologia. L’incidenza del riscontro di focolai otosclerotici nelle ossa temporali è variabile a seconda della razza: 10% nei caucasici, 5% negli asiatici, 1% negli afro-americani, 0% nei nativi americani. La manifestazione clinica è però 10 volte meno frequente di quella istologica: tra lo 0,2-1% nei caucasici. Mentre nella forma istologica non c’è differenza tra maschi e femmine, nella forma clinica il rapporto donna/uomo è circa 2:1.

Anatomia patologica. I focolai otospongiosici originano dallo strato encondrale della capsula otica (per poi estendersi l’endostio ed il periostio e talvolta penetrare all’interno del labirinto membranoso) e sono caratterizzati da osso spongiotico e sclerotico che rimpiazza l’osso maturo riassorbito dagli osteoclasti; la prima fase (otospongiosica) è caratterizzata da differenti gruppi cellulari attivi (osteociti, osteoblasti, istiociti...) e dal riassorbimento osseo e dalla successiva deposizione di osso immaturo, ricco in sostanza fondamentale e scarso in collagene, a livello degli spazi periva scolari (Fig. 1). In questa fase è talvolta presente il “segno di Schwartze” cioè un’area rossa a livello del promontorio che traspare al di là della membrana timpanica integra. Nella successiva fase sclerotica, le aree di riassorbimento vengono sostituite da osso sclerotico. Le due fasi possono essere presenti contemporaneamente. Il focolaio otospongiosico è più frequentemente situato a livello del bordo anterioro-superiore della fissula ante fenestram e tende ad espandersi sulla platina; ma può interessare anche tutta la coclea (otosclerosi cocleare) e solo eccezionalmente il labirinto posteriore (Fig. 2).

Patofisiologia. L’otosclerosi è una malattia metabolica primitiva della capsula otica e ossicini. Molte sono le teorie etiopatogenetiche: ereditaria (autosomica dominante con penetranza incompleta e espressività variabile) e alcuni loci, OTSC1, OTSC2, OTSC3 e OTSC5 sono stati associati all’otosclerosi ed alcuni geni sono stati identificati: aggrecan, TIF1alfa, PLOD3, RING1, COL11A2, PCOLCE2, CHST2 (che hanno in comune una attività di regolazione del collagene); endocrina (è osservazione comune che gravidanza e allattamento possono accelerare la progressione della malattia), metabolica, autoimmune, infettiva (sono stati trovati nel focolaio otosclerotico capsidi di alcuni virus, per es. morbillo...)


Fig. 1. SEM (a) platina normale, (b) platino otospongiotica.


Fig. 2. (a) Sezione istologica di osso temporale a livello della coclea: è evidente il focolario otospongiotico anteriore alla platina (cortesia di G.Keleman); (b) sezione istologica di osso temporale a livello della coclea: è evidente il massivo focolario otospongiotico che coinvolge tutta la coclea (cortesia di G. Keleman).


Storia. Anche se la comparsa della manifestazione clinica può essere nella prima adolescenza, il gruppo con maggior incidenza è quello tra i 15-45 anni di età; l’ipoacusia è di tipo trasmissivo (almeno nelle prime fasi), lentamente progressiva, bilaterale (80%), non sempre simmetrica, con presenza di acufeni (75%). Sintomi vestibolari sono riferiti in circa un quarto dei pazienti e talvolta non è semplice distinguerli con una malattia di Menière. Spesso i pazienti con otosclerosi bilaterale parlano ad una intensità di voce bassa (dato che la via ossea è normale, percepiscono la loro voce più alta di quello che in realtà è) e possono riferire di udire meglio nel rumore (paracusia di Willis).

Diagnosi differenziale. Include molti tipi di disordini dell’orecchio medio che producono una ipoacusia di tipo trasmissivo o misto. In particolare: discontinuità della catena ossiculare (congenita, postraumatica o postflogistica), fissazione congenita della staffa, fissazione della testa del martello, malattia di Paget, osteogenesi imperfecta (sindrome di van der Hoeve). Una forma particolare è la ipoacusia di tipo misto legata al cromosoma X DFN3 da mutazione del gene POU3F4 con gusher e la Sindrome di Minor.

Otocopia. La membrana timpanica è normale; può essere presente il“segno di Schwartze”. L’esame otomicroscopico permette di escludere forme timpanosclerotiche, versamento nell’orecchio medio, atelettasia della MT, colesteatoma a timpano chiuso.

Audiometria. Gli esami strumentali comprendono:

Timpanometria: il timpanogramma è solitamente normale (tipo A), solitamente con un picco ridotto (As).

RCS: i riflessi cocleo-stapediali sono tipicamente assenti sia per stimolo contro laterale sia ipsilaterale nella fase conclamata; nella fase iniziale, il RCS può essere presente all’inizio e alla fine dello stimolo (effetto ON-OFF) (Fig. 3) e questo può dipendere dai vari gradi di fissità della staffa a livello della finestra ovale (Fig. 4).

Audiometria tonale: l’ipoacusia è di tipo trasmissivo, nella fase iniziale con maggior interessamento delle frequenze sotto i 1000 Hz (fase I), per diventare poi pantonale (fase II); Successivamente il coinvolgimento delle strutture cocleari produce un interessamento della via ossea (Fig. 5). Il progressivo peggioramento della funzione uditiva coinvolge sia la via aerea sia la via ossea e può portare ad una ipoacusia di tipo misto grave (fase III e IV) o profonda (fase terminale). Nella fase II si osserva un peggioramento in particolare per la frequenza 2000 Hz (tacca di Carhart), che scompare dopo l’intervento chirurgico, che sembra dovuto ad un fenomeno di riduzione della risonanza ossiculare e ridotta mobilità della perilinfa, più che ad un danno sensoriale vero e proprio.


Fig. 3. Il RCS nell’otosclerosi iniziale (effetto ON-OFF).


Fig. 4. Diversi gradi di interessamento platinare da parte del focolaio otosclerotico (che solitamente inizia dal polo anteriore).


Imaging. Lo studio TAC è sempre utile nella valutazione preoperatoria di un paziente con sospetta otosclerosi, in quanto, anche se la evidenza radiologica di un ispessimento platinare, di un restringimento della finestra ovale e di focolai parafenestrali non nè frequente nè dirimente, è utile per valutare l’estensione dei focolai cocleari (immagine a “doppio anello” tipica delle forme di otosclerosi cocleare gravi – Fig. 6), escludere altre patologie come la s. di Minor o la dilatazione dell’acquedotto vestibolare (possibile causa di gusher intraoperatoria). Lo studio TAC può essere utile nel postoperatorio in caso di risultato non ottimale, per la valutazione del posizionamento della protesi. Raramente si rende necessario uno studio RM, a parte i casi di possibile contemporanea patologia retrococleare (neurinoma) o per valutare la pervietà del dotto cocleare o l’attività del focolaio nelle forme avanzate.


Fig. 5. Quadri audiometrici nell’otosclerosi.


Fig. 6. TAC osso temporale in caso di grave otosclerosi con diffusa demineralizzazione pericocleare.


Trattamento.

Storia naturale: nel 90% dei casi il focolaio non raggiunge la platina o la coclea e si trasforma quindi nella forma inattiva senza causare ipoacusia. Nel 10% dei casi in cui diventa clinicamente evidente, il trattamento dipende in parte dal grado di evoluzione della ipoacusia, in parte dall’atteggiamento e dalle condizioni di salute del paziente. Molti studi hanno evidenziato un maggior grado di gradimento dei pazienti sottoposti con successo a chirurgia rispetto a quelli sottoposti a protesizzazione acustica; ma ogni paziente deve essere valutato e trattato singolarmente.

Protesizzazione: la protesi acustica può essere una opzione accettabile nei casi in cui il paziente non possa o non voglia sottoporsi all’intervento chirurgico.

Trattamento medico: da molti decenni è in uso il fluoruro di sodio, in quanto lo ione fluoruro rimpiazza lo ione idrossile trasformando l’octocalciofosfato (osso immaturo) in fluoroapatite, simile alla idrossiapatite, presente nell’osso maturo; questo riduce il riassorbimento osseo e aumenta la calcificazione dell’osso neoformato. Questo trattamento può bloccare l’espansione dei focolai di otospongiosi e ridurre gli acufeni e gli eventuali sintomi vertiginosi; può provocare rash cutanei, artrite e disturbi gastrici; ma effetti collaterali permanenti sono rari. Il dosaggio è tra 10 e 100 mg/die nell’adulto, prolungato per mesi. Il trattamento con fluoruro di sodio va preso in considerazione in caso di pazienti che non si sottopongono alla chirurgia e come trattamento preoperatorio nei casi con otospongiosi attiva (per es. con Schwartze positivo). Altri Autori hanno suggerito l’uso dei bioflavonoidi.

Chirurgia: è il trattamento di elezione per l’otosclerosi. Oggi la chirurgia dell’otosclerosi consiste essenzialmente nella rimozione della sovrastruttura della staffa, che viene sostituita da una protesi a pistone agganciata sull’apofisi lunga dell’incudine e che si inserisce sulla finestra ovale dopo rimozione in toto della platina (stapedectomia) o tramite un foro platinare stapedotomia).

Le prime tecniche proposte sono state la fenestrazione del canale semicircolare laterale (Holmgren 1923), la mobilizzazione stapediale (Rosen, 1950); la stapedectomia fu proposta nel 1956 da John Shea. Nonostante molte modifiche sul tipo di protesi, materiale di interposizione, di grandezza del foro platinare, di strumento utilizzato per la perforazione platinare, la tecnica è rimasta sostanzialmente la stessa fino ai giorni nostri (vedi capitolo 1.5.5 “chirurgia dell’otosclerosi”)

1.4.2.6 Forme neoplastiche
1.4.2.6.1 Paraganglioma timpano-giugulare (o chemodectoma)

Definizione. I paragangliomi, a volte definiti anche tumori glomici, rappresentano delle neoplasie che originano dal tessuto paragangliare, ovvero dalle cellule delle creste neurali.

Epidemiologia. Rappresentano lo 0,6% delle neoplasie cervico- facciali e lo 0,3% dei paragangliomi di tutto l’organismo; le altre localizzazioni possono essere surrenaliche, addominali e toraciche. Si stima che la loro incidenza sia pari a 1/30.000 nella popolazione caucasica; è presente una preponderanza femminile (circa 5/1) e l’età media di diagnosi è compresa tra 50 e 60 anni.

Le localizzazioni giugulo-timpaniche sono le più frequenti dopo quelle carotidee e vagali. Rappresentano i tumori dell’osso temporale più frequenti dopo il Neurinoma dell’Acustico.

Anatomia Patologica.

Macroscopica. Sono tumori duro-elastici, nodulari o lobulati, di colore rosso scuro, molto vascolarizzati. A causa di questa particolarità hanno spesso un carattere pulsante ed emorragico.

Microscopia. Sono composti prevalentemente da due tipi di cellule:

– cellule principali (di tipo I), rotonde o poligonali, raggruppate in nidi cellulari, con citoplasma eosinofilo e finemente granuloso. Contengono granuli neurosecretori evidenziabili mediante impregnazione d’argento o con colorazione di Nissl;

– cellule sopratentacolari (di tipo II), simili alle cellule di Schwann.

Attraverso l’immunocitochimica è possibile evidenziare nelle cellule di tipo I la presenza di cromatogranina, sinaptosfina e/o neuropeptidi, a conferma del carattere secernente che talora assumono tali neoformazioni.

Secrezione funzionale. Tutti i paragangliomi contengono granuli neurosecretori, ma solo l’1-3% è associato ad una secrezione funzionale. Il più delle volte è presente una secrezione di catecolamine (dopamina, epinefrina) che deve essere ricercata con dosaggi biologici in presenza della triade classica (sudorazione, cefalea, tachicardia). Sono stati descritti paragangliomi secernenti serotonina.

Modalità di estensione. Il paraganglioma timpanico si estende localmente, colmando gli spazi aerei dell’orecchio medio, occupando la tuba di Eustachio. Il paraganglioma giugulare si estende spesso in senso endoluminale, senza però infiltrare le pareti vasali. L’estensione del tumore glomico può anche essere verso la base cranica, anche con interessamento endocranico (v. dopo classificazione).

Prevalentemente si tratta di tumori benigni ad evoluzione lenta, che non mettono in pericolo la prognosi vitale. In letteratura sono stati riportati anche alcuni casi di tumori maligni; tuttavia il concetto di malignità si basa su criteri istologici discussi, come mitosi multiple, polimorfismo nucleare od invasione capsulare. Per la maggior parte degli Autori tuttavia, la malignità si basa sulla presenza di metastasi, riportate nel 5% dei paragangliomi giugulo-timpanici; le sedi metastatiche più osservate sono linfonodali, polmonari, epatiche ed ossee.

Genetica e familiarità. Si stima che l’incidenza delle forme familiari sia compresa tra il 10 ed il 50%. I geni responsabili delle forme ereditarie sono localizzati sui cromosomi 1 ed 11. Sono stati isolati 3 loci, chiamati PGL 1, 2 e 3. Le mutazioni descritte implicano delle modificazioni del complesso mitocondriale, che sarebbero associate ad un’iperproduzione di fattori angiogenici. La trasmissione di queste forme familiari è di tipo autosomico dominante, a penetranza variabile.

Clinica.

Sintomi otologici. Precoci nei paragangliomi timpanici, più tardivi nelle lesioni a partenza giugulare; si tratta prevalentemente di acufeni pulsatili o di ipoacusia. La presenza di vertigine è più rara.

Sintomi neurologici. Se presenti sono espressione di avvenuta diffusione locale della neoplasia; fra questi si annoverano: disturbi della deglutizione, raucedine, paralisi linguale.

L’esame otoscopico può individuare la presenza di una massa iperemica, talora pulsante, che solleva il timpano; non di rado si può osservare un tumore esteriorizzato nel CUE.

L’esame bioptico è controindicato a causa dell’elevato rischio emorragico.

La ricerca di una ipersecrezione di catecolamine deve essere effettuata soprattutto qualora sia presente una sintomatologia clinica evocatrice od in previsione di un intervento chirurgico. Il dosaggio deve essere effettuato sulle urine delle 24h.

Attraverso l’audiometria liminare tonale sarà possibile valutare l’entità dell’ipoacusia, precisandone il tipo: trasmissiva in ogni caso di tumore timpanico a contatto con la catena degli ossicini, o percettiva in caso di erosione del labirinto, perlopiù in neoplasie provenienti dal golfo della giugulare. L’esame vestibolare calorico può essere effettuato a completamento.

Diagnostica per immagini. Scopo della diagnostica per immagini è di precisare i limiti tumorali e l’eventuale estensione alle strutture limitrofe. Tali dati consentono di classificare il tumore e di fornire delle indicazioni per quanto riguarda il trattamento. I due esami principali sono la TC e la RMN; grazie all’iniezione del mezzo di contrasto, queste due metodiche consentono di definire abbastanza agevolmente l’estensione e l’origine di queste neoplasie ipervascolarizzate. In particolare la RMN è di norma più efficace nell’esplorazione dei tessuti molli, mentre la TC è superiore nello studio dell’osso. Alla TC è talora possibile evidenziare un’erosione del promontorio, e/o distruzione totale/subtotale della catena ossiculare. È inoltre molto importante osservare l’assenza della sottile lamina ossea che normalmente separa la cassa del timpano dal golfo della giugulare: la sua erosione permette di distinguere tra paragangliomi timpanici, oppure giugulari secondariamente estesi all’orecchio medio.

In particolare la RMN, è più sensibile della TC nel valutare l’eventuale invasione intradurale e delle strutture del basicranio. Permette inoltre di confermare il carattere ipervascolarizzato della lesione, ed eventualmente di studiare il supporto vascolare della lesione stessa (angio-RMN).


APPROFONDIMENTO


Arteriografia. I paragangliomi timpanici e giugulari, senza estensione petrosa o intracranica significativa, sono vascolarizzati prevalentemente da rami della carotide esterna (arteria faringea ascendente, occipitale, auricolare posteriore e mascellare interna). Le forme più voluminose invece ricevono un apporto complementare dall’arteria carotide interna tramite le sue collaterali carotidotimpanica o intracavernosa, così come dall’arteria vertebrale con i rami muscolari e meningei.

Per mezzo dello studio angiografico, è possibile ben individuare i peduncoli nutritivi della lesione e la sua angio-architettura; infine è possibile talora documentare altre lesioni complementari, che indicano, se presenti, il carattere multicentrico della malattia paragangliare.

Altra metodica utilizzabile per lo studio di tali lesioni, è la scintigrafia; essa utilizza la proprietà che i paragangliomi condividono con la maggior parte degli altri tumori neuroendocrini, di presentare recettori della somatostatina sulla loro superficie. Pertanto l’iniezione endovenosa di un radioelemento analogo della somatostatina, consente di visualizzare i siti di fissazione dell’ormone, permettendo di visualizzare la lesione. La sensibilità di tale metodica alla diagnosi delle lesioni da paraganglioma è superiore al 95%.

Classificazione. Al termine del bilancio clinico-radiologico, è necessario classificare il paraganglioma. La classificazione più utilizzata è quella di Fish:

– tipo A: tumore localizzato alla cavità timpanica;

– tipo B: tumore localizzato nell’ipotimpano, che può estendersi alle cellule mastoidee e al compartimento infralabirintico;

– tipo C: tumore giugulare, distinto in quattro sottotipi, secondo il suo grado di estensione anteriore, carotideo e petroso:

• C1: invasione dei margini ossei del forame giugulare e carotideo;

• C2: invasione della porzione verticale della carotide intrapetrosa;

• C3: invasione delle porzioni verticale ed orizzontale della carotide interna;

• C4: invasione di tutta la carotide interna intrapetrosa, del forame lacero e del seno cavernoso;

– tipo D: tumore giugulare con estensione intracranica.


Fig. 1. Massa rossa visibile in trasparenza nei quadranti inferiori espressione di un glomo timpanico (orecchio destro) (da Ralli).


Fig. 2. TAC rocche orecchio destro con evidenza di neoformazione ipotimpanica.


Terapia. Il trattamento dei paragangliomi timpanogiugulari può prevedere il ricorso alla chirurgia; il più delle volte si procede preventivamente ad unembolizzazione selettiva della lesione. La scelta del trattamento chirurgico può esere influenzata da diversi fattori fra cui, caratteristiche del tumore, del paziente, esperienza personale del chirurgo.

La rimozione chirurgica dei paragangliomi è considerato uno degli atti più complessi della otoneurochirurgia. Ciò è dovuto alla sede profonda delle strutture da raggiungere, alla natura molto vascolarizzata del tumore ed agli stretti legami che esso contrae con le strutture neurovascolari. Allexeresi, oggi realizzabile anche sfruttando approcci microchirurgici, può associarsi una percentuale non trascurabile di complicanze peri- e post.operatorie. Tra queste ricordiamo:

– lesione dei nervi misti, con disfonia, disturbi della deglutizione, paralisi velofarigea e rinolalia, alterazione della motilità della spalla;

– lesione del XII con alterata mobilità linguale;

– lesione del simpatico cervicale con sindrome di Bernard-Horner.

Embolizzazione. Grazie alla sua efficacia accertata, è già da molto tempo parte integrante dei protocolli chirurgici. L’indicazione e la tecnica variano in base al tipo di paraganglioma ed alla sua vascolarizzazione. Le complicanze legate a tale procedura perlopiù dipendono dall’origine della vascolarizzazione della neoplasia; l’incidenza è variabile in letteratura, a seconda delle casistiche, dal 2% al 7%. Il meccanismo etiopatogenetico alla base delle complicanze può essere legato sia alla migrazione del palloncino d’occlusione, che al distacco di placche di ateromasia.

Radioterapia. Inizialmente proposta come trattamento elettivo nel trattamento di tali lesioni, il suo ruolo è stato poi riconsiderato dato lo sviluppo delle tecniche chirurgiche e della radiologia interventistica. Tra le complicanze derivanti da questo tipo di trattamento si annoverano l’eritema cutaneo post-irraggiamento e le osteoradionecrosi del temporale.

1.4.2.6.2 Tumori epiteliali del condotto uditivo esterno e dell’orecchio medio

I carcinomi dell’orecchio sono stati descritti in letteratura a partire dal 1875, mentre la prima trattazione sistematica comparve nel manuale di Politzer del 1883. Nel secolo scorso la prima casistica importante fu pubblicata da Broders nel 1921, mentre contributi importanti furono quelli di Lederman (1965) per la radioterapia e di Lewis (1975) per la chirurgia. Questi tumori hanno prognosi severa negli stadi avanzati e linee guida di terapia ancora molto controverse. Le casistiche presenti in letteratura sono infatti limitate e spesso non omogenee sia per l’istotipo, sia per classificazione ed i protocolli di terapia adottati. Tutto questo non permette una valutazione statisticamente significativa dei risultati

Epidemiologia. I carcinomi dell’orecchio esterno e medio sono neoplasie rare con un’incidenza di circa 1 nuovo caso per milione di abitanti all’anno, vale a dire 10 volte inferiore a quella dei carcinomi del padiglione auricolare. Colpiscono entrambi i sessi con uguale frequenza, con un’età media di presentazione di 55 anni. Nell’85% dei casi insorgono in pazienti che soffrono di processi suppurativi cronici dell’orecchio. Carcinomi radio-indotti sono descritti in pazienti precedentemente irradiati nei distretti testa e collo.

Anatomia Patologica. Nell’80% dei casi sono carcinomi squamosi, nel 15% basocellulari e per il restante 5% si tratta di adenocarcinomi, carcinomi adenoidocistico, carcinoma muco epidermoide, ceruminoma esarcomi. Sia il sarcoma osteogenico che il condrosarcoma si manifestano come tumori primitivi dell’osso temporale e hanno un decorso fulminante sia nei bambini che nei giovani adulti. Il rabdomiosarcoma è il tumore maligno dell’orecchio medio più comune nei giovani e tipicamente colpisce bambini di età inferiore a 5 anni. Il sintomo iniziale è spesso la paralisi del facciale che può venir scambiato erroneamente per una paralisi idiopatica di Bell. Pertanto, il rabdomiosarcoma deve sempre essere preso in considerazione in qualsiasi bambino che lamenta una paralisi del faciale idiopatica. Si localizzano sulla cute del CUE, cartilagineo o osseo, o sulla mucosa dell’orecchio medio e si manifestano come lesioni polipoidi facilmente sanguinanti, talora ulcerate, rosso-brune, più raramente come una massa sottocutanea. La lesione cresce verso la conca auricolare oppure verso l’orecchio medio. La classificazione in stadi più comunemente accettata è quella proposta dalla Scuola di Pittsburg (Arriaga, 1999) (Tab. I), che si basa sulla valutazione pre-trattamento mediante TAC, sull’esame clinico e sull’eventuale esame istopatologico del pezzo operatorio.

Quadro clinico. Il sintomo più frequente è l’otorrea cronica monolaterale, associata spesso ad otalgia e prurito auricolare, meno frequentemente ad otorragia. La paralisi del nervo facciale o degli altri nervi cranici misti, l’oftalmoplegia per coinvolgimento del III, IV e VI nervo cranico, l’ipoacusia con acufeni e vertigini, le linfoadenopatie, il trisma, l’infiltrazione parotidea, la lateralizzazione del padiglione auricolare e le fistole retroauricolari compaiono in genere tardivamente e sono espressione di una fase avanzata della malattia con prognosi severa. Il ritardo diagnostico è frequente in queste neoplasie ed è comprensibile se si considera sia la loro bassa incidenza e quindi la scarsa conoscenza da parte del medico non specialista, sia la aspecificità dei sintomi, che sono del tutto simili a quelli delle comuni infezioni croniche dell’orecchio. Nella maggior parte delle casistiche riportate in letteratura, oltre il 50% dei pazienti era giunto all’osservazione con malattia al III o IV stadio. Al momento della diagnosi, il 10% di questi pazienti presenta mestastasi linfonodali locoregionali, con localizzazione più frequente a livello sottodigastrico e parotideo.


T 1
Tumore limitato al canale uditivo esterno senza erosione ossea o estensione ai tessuti
molli
T 2
Tumore con limitata erosione del condotto uditivo esterno osseo (non a pieno
spessore) o riscontro radiologico di limitato interessamento dei tessuti molli (<0,5cm)
T 3
Tumore che ha eroso il condotto uditivo osseo (a tutto spessore) con limitato
interessamento dei tessuti molli (<0,5cm), o tumore esteso all’orecchio medio e/o
mastoide, o pazienti che presentano paralisi del facciale
T 4
Tumore che ha eroso la coclea, l’apice della rocca petrosa, la parete mediale
dell’orecchio medio, il canale carotideo, il forame gigulare o la dura, o con esteso
interessamento dei tessuti molli (>0,5cm)
N
L’interessamento dei linfonodi è un dato prognostico negativo e aumenta
automaticamente lo stadio: stadio III (T1, N1) o stadio IV (T2,3 e 4, N1)
M
Metastasi a distanza determinano prognosi molto severa e corrispondono ad un
stadio IV

Tab. I. Classificazione delle neoplasie del CUE e dell’orecchio medio proposta dalla Scuola di Pittsburg (1999).

Diagnosi. In tutti i casi dubbi è indispensabile eseguire una biopsia adeguata. Una volta eseguita la biopsia, la diagnosi differenziale istologica generalmente non pone problemi. Solo in rare occasioni può essere di una qualche difficoltà differenziare il carcinoma squamocellulare da un basocellulare o da un papilloma squamoso. Il prelievo di una neoformazione dell’orecchio medio o del CUE va eseguita con le dovute attenzioni in quanto in tale sede è possibile la presenza di:

– deiscenze del canale del faciale, con il nervo scoperto o ricoperto da polipi talora adesi al perinevio. In questi casi una manovra incongrua può danneggiare il nervo;

– tessuto cerebrale erniato attraverso una deiscenza del tegmen timpanico o della mastoide, generalmente in esiti di pregressi interventi otochirurgici per colesteatomi avanzati o per neoplasie. Vi è rischio di liquorrea se il tessuto cerebrale è le meningi non vengono riconosciuti come tali;

– un golfo della giugulare procedente nell’orecchio medio, con evidente rischio di emorragie difficilmente controllabili;

– tessuti riccamente vascolarizzati e facilmente sanguinanti, quali i tumori del glomo timpanico e giugulare.

Una TC dell’orecchio (Fig. 1) accompagnata o meno da una RMN permette di escludere queste lesioni e di eseguire una biopsia in tutta sicurezza.

La diagnosi differenziale clinica del carcinoma del CUE e dell’orecchio medio si pone con l’otite esterna cronica, l’otite cronica polipoide e l’otite esterna maligna. L’otorrea persistente, l’otalgia, il prurito e spesso la scarsa risposta ad un trattamento medico sono comuni a tutte queste patologie. Nell’otite esterna cronica la stenosi del CUE secondaria all’edema ed all’infiltrazione della cute e dei tessuti molli determina il ristagno di secrezioni infette, di cheratina o di tessuto necrotico con mantenimento dell’infezione batterica, micotica o mista. In questi casi, l’otorrea può persistere per lunghi periodi e possono comparire granulazioni flogistiche non distinguibili clinicamente dalle lesioni neoplastiche.

Terapia. Per gli stadi iniziali, I e II, senza o con solo parziale infiltrazione ossea e cartilaginea (non a tutto spessore), è indicata la sola terapia chirurgica, rappresentata da un intervento di mastoidectomia associata a resezione in blocco della cute e delle pareti osteocartilaginee del CUE. Il solo trattamento radioterapico di queste neoplasie iniziali ha dimostrato risultati peggiori rispetto alla chirurgia ed una più elevata morbilità in particolare sul nervo facciale.

Negli stadi più avanzati, III e IV, la chirurgia comprende gli interventi di petrosctomia parziale, subtotale o totale associate o meno a parotidectomia e svuotamento linfonodale laterocervicale selettivo. In questi casi la chirurgia deve essere combinata con una RT post-operatoria alle dosi totali di 50 – 60 Gy per residui microscopici e di 70 Gy per residui macroscopici. Il campo deve includere l’orecchio, l’osso temporale, i linfonodi preauricolari e l’angolo mandibolare. Per escludere una necrosi ossea o cartilaginea si raccomandano dosi singole comprese tra 1,2 e 2 Gy.

La prognosi di queste neoplasie è strettamente correlata alla precocità della diagnosi, variando infatti da una guarigione nell’80-100% delle forme iniziali (stadio I) ad una sopravvivenza a 5 anni non supe riore al 30 - 40% nelle forme avanzate (stadio III e IV).


Fig. 1. Carcinoma epidermoide del condotto uditivo esterno. Si evidenzia (freccia) l’erosione ossea della parete inferiore del condotto uditivo esterno e l’estensione alla cavità mastoidea.

Audiologia e Foniatria
Audiologia e Foniatria
Martini A. - Prosser S. - Aimoni C. - Bovo R. - Ciorba A. - Trevisi P.
VERSIONE EBOOKQuesto manuale è principalmente indirizzato agli studenti che frequentano corsi in cui si richiede una conoscenza dei disordini del sistema uditivo-vestibolare e del sistema fonatorio. Lo scopo per cui è stato scritto era di disporre di un testo agile da suggerire agli studenti come complemento ai trattati di ORL comunemente in uso. Gli argomenti sono suddivisi in tre parti (AUDIOLOGIA, VESTIBOLOGIA e FONIATRIA). La prima riguarda il sistema uditivo e comprende l’anatomo-fisiologia, i principali mezzi di indagine diagnostica, la clinica (comprese le malattie dell’orecchio esterno e medio), nozioni di base di otochirurgia e i sussidi protesici (protesi uditive, protesi impiantabili, impianti cocleari). La seconda è dedicata ai disordini vestibolari periferici e centrali: la parte clinica è preceduta da una descrizione dell’anatomo-fisiologia e dei mezzi diagnostici del sistema vestibolare. La terza parte riguarda i disordini della voce e del linguaggio, in particolare quelli dell’età evolutiva. Nella trattazione dei vari argomenti si è cercato di mantenere uno schematismo per facilitare un apprendimento abbastanza veloce dei temi essenziali. Molti temi sono stati ampliati da “approfondimenti” che abbiamo ritenuti opportuni per meglio spiegare la patologia e la clinica. Questi sono stati evidenziati a stampa diversa, e potranno essere utilizzati secondo i programmi individuali di studio o, augurevolmente, solo per curiosità. L’Audiologia-Foniatria, benché presente nell’ordinamento delle facoltà mediche come specialità autonoma, non ha trovato almeno in Italia un’ampia diffusione nel servizio sanitario nazionale. Questo manuale si propone quindi come mezzo di aggiornamento anche per il medico generico e lo specialista ORL, che diventano molto spesso i primi a fronteggiare patologie di tipo audio-vestibolare e foniatrico anche di elevata occorrenza, che tuttavia possono richiedere una base aggiornata di conoscenze specifiche per essere adeguatamente inquadrate. Questo volume è stato scritto “a più mani”, ma tutti i capitoli sono stati oggetto di discussione “assieme” e rappresenta 20 anni di esperienza maturata tra un gruppo di colleghi-amici nell’Audiologia di Ferrara.