1.4.3.2.2.2 Ipoacusia fluttuante

L’ipoacusia fluttuante è un’entità nosologica tuttora non ben definita. Si tratta di una patologia in cui la soglia uditiva di un orecchio (o di entrambi) è soggetta a variazioni nel tempo. Spesso si tratta di ipoacusie neurosensoriali che, pur avendo una modalità d’insorgenza simile all’ipoacusia improvvisa, recuperano spontaneamente i valori audiografici pre-crisi. Proprio il ripetersi nel tempo di queste poussèes di ipoacusia, non necessariamente accompagnate da risentimento vestibolare, giustifica il termine “fluttuanti”.

In alcuni casi però, il ripetersi di tali episodi può indurre un progressivo deterioramento delle strutture neurosensoriali cocleari, e determinare quindi l’insorgenza di un’ipoacusia neurosensoriale di entità medio-grave.

Il meccanismo eziologico di tale affezione rimane oscuro. La maggior parte degli Autori concorda per una sofferenza cocleare su base idropica come nella malattia di Ménière. Altri fattori chiamati in causa sono le alterazioni del microcircolo cocleare e gli agenti virali (v. ipoacusia improvvisa).

Soprattutto in caso di bilateralità è necessario escludere le malformazioni cocleari (es. EVA), le patologie autoimmuni, la sifilide.

Clinicamente l’ipoacusia fluttuante si caratterizza per un deficit uditivo che tende a manifestarsi improvvisamente per poi risolversi, completamente o parzialmente, nel giro di alcune ore o giorni. L’ipoacusia tende a ripresentarsi altre volte nel tempo con la stessa modalità, con frequenza imprevedibile e senza chiari fattori scatenanti. Possono concomitare acufeni.

In alcuni casi l’ipoacusia fluttuante può rappresentare il sintomo d’esordio di una malattia di Menière, in cui la sintomatologia vertiginosa si manifesta in un secondo momento dopo un intervallo di alcuni mesi.

La diagnosi (strumentale) si avvale dell’esame audiometrico, che eseguito in fase acuta, dimostra la presenza di un deficit neurosensoriale, per lo più, localizzato inizialmente alle basse e medie frequenze, di lieve-media entità.

Il trattamento dell’ipoacusia fluttuante è tuttora dubbio e reso difficile dal fatto che la causa è per lo più sconosciuta. È inoltre difficile dimostrare l’efficacia dei vari trattamenti anche per la frequente regressione spontanea.

È stato proposta la combinazione di corticosteroidi e farmaci vasoattivi. In letteratura sono stati ipotizzati anche altri trattamenti (es. antivirali).


1.4.3.2.2.2.1 Malattia di Menière

Definizione. Si tratta di una patologia dell’orecchio interno caratterizzata da periodici attacchi di vertigine oggettiva, della durata di alcune ore (20 min-24 ore), quasi sempre accompagnati da una intensa sintomatologia neurovegetativa (sudorazione, nausea, vomito, diarrea: questi sintomi possono non essere tutti presenti contemporanemente), associati a ipoacusia fluttuante, sensazione di pienezza auricolare e acufeni. Fu descritta per la prima volta nel 1861 da Prosper Menière.

Epidemiologia. Negli Stati Uniti vi sono 615.000 pazienti con diagnosi di malattia di Meniere, con 45.000 nuove diagnosi annuali. Il Framingham study ha riscontrato una incidenza del 2%. La prevalenza è stata calcolata in Italia nel 1988 ed è risultata pari a 82 nuovi casi per milione di abitanti.

L’età in cui la malattia di Menière si manifesta più comunemente è compresa tra i 40 ed i 60 anni con una lieve predilezione per il sesso femminile. Sono però stati descritti anche casi insorti nell’adolescenza e più raramente sotto i 10 anni.

Eziopatogenesi. È dovuta ad una alterazione dei meccanismi di produzione e di riassorbimento dei liquidi labirintici (idrope endolinfatico) con degenerazione secondaria degli elementi sensoriali cocleari e vestibolari. Tuttavia ad oggi la causa dell’idrope rimane incerta e la diagnosi è di esclusione. L’idrope può essere la conseguenza di numerosi eventi singoli/ripetuti che vanno dal trauma alle infezioni virali, ai disordini autoimmuni, agli spasmi intermittenti dei vasi dell’orecchio interno, ecc. (vedi Tabella).


Anomalie anatomiche (osso temporale)

Basi genetiche (possibile trasmissione autosomica dominante nel 7,7% dei casi)

Cause immunologiche (depositi da immuno-complessi)

Eziologia virale (IgE sieriche, herpes simplex virus tipo I e II, Epstein-Barr virus e CMV)

Eziologia vascolare (associazione con emicrania)

Eziologia metabolica (intossicazione da potassio)

Tab. Principali ipotesi eziopatogenetiche dell’idrope endolinfatico


L’eccesso di endolinfa può conseguire sia ad un aumento di produzione a livello della stria vascolare, sia ad un difetto di riassorbimento a livello del sacco endolinfatico. All’incremento di endolinfa può conseguire la rottura delle membrane del labirinto membranoso con conseguente contaminazione della perilinfa da parte dell’endolinfa e conseguente paralisi funzionale transitoria delle cellule ciliate coclearari e vestibolari, da cui origina la vertigine e l’ipoacusia fluttuante. Non tutti gli Autori però concordano su tale punto; per alcuni la rottura delle membrane del labirinto membranoso è un evento legato alla preparazione istologica ed i disturbi cocleo-vestibolari sarebbero piuttosto dovuti alla compressione sui recettori.

Clinica. La malattia di Menière è caratterizzata dall’associazione di disturbi uditivi e vestibolari, che nella forma tipica si manifestano in stretta associazione temporale. Nella maggior parte dei casi inoltre, essa è monolaterale. È tuttavia possibile, anche a distanza di anni, che la malattia possa divenire bilaterale; tale evenienza si verifica in una percentuale di soggetti compresa tra il 15 ed il 60%, secondo varie casistiche.

I sintomi uditivi sono tipicamente caratterizzati da ipoacusia ad andamento fluttuante, acufeni e sensazione di pienezza auricolare. Gli acufeni, la cui insorgenza o accentuazione precedono di solito l’ipoacusia e lo scatenarsi della crisi vertiginosa, hanno di solito tonalità acuta. L’insorgenza dell’ipoacusia segue la comparsa degli acufeni e di solito precede di poco lo scatenarsi della crisi vertiginosa. Il deficit uditivo, inizialmente reversibile, nel tempo tende a divenire permanente. La vertigine si presenta solitamente con carattere molto violento (il paziente deve stendersi), ha andamento rotatorio e una durata di alcune ore (20 min-24 ore). È accompagnata da nausea e vomito, talora diarrea, ma non provoca perdita di conoscenza. Pallore, sudorazione e tachicardia completano il quadro clinico.

La frequenza delle crisi è alquanto irregolare, essendo possibile riscontrare soggetti affetti da crisi molto frequenti, soggetti affetti da crisi intervallate da lunghi periodi di benessere e infine, soggetti con lunghi periodi di benessere interrotti da periodi in cui si possono ripetere molte crisi ravvicinate nel tempo.

Solitamente, con il passare del tempo le crisi di vertigine tendono a divenire più frequenti ma meno intense, anche se sono sempre possibili violente riacutizzazioni.

L’evoluzione della patologia porta alla risoluzione spontanea della crisi vertiginosa, quasi sempre associata a ipoacusia progressiva ed irreversibile.

Il miglioramento uditivo che segue la crisi vertiginosa è noto come sintomo di Lermoyez. Gli episodi di crisi di vertigine violenta con caduta a terra senza perdita di coscienza, sono noti come “drop attacks” o crisi di Tumarkin, probabilmente da disfunzione otolitica.

Diagnosi. La diagnosi di malattia di Menière si basa sulla ricerca degli aspetti clinici propri della malattia; appare tipica la presenza di ipoacusia fluttuante associata a crisi di vertigine oggettiva con un’evoluzione temporale caratterizzata da una durata di alcune ore e seguite da benessere.


Diagnosi

Quadro clinico

Certa

Malattia definita più istologia

Definita

2 o più episodi di vertigine di durata superiore a 20 min; ipoacusia neurosensoriale, ear fullness e/o acufeni. Altre patologie escluse

Probabile

Un episodio di durata >20 min, ipoacusia neurosensoriale, acufeni e/o ovattamento. Altre patologie escluse

Possibile

Vertigini senza ipoacusia (o ipoacusia fluttuante). Altre cause escluse


Il deficit uditivo è sempre di tipo percettivo. Nelle fasi iniziali si localizza soprattutto alle basse e medie frequenze, e presenta valori di soglia che si modificano nel tempo (fluttuazioni)(Fig. 1). Successivamente in genere si associa un deficit alla alte frequenze, quindi un interessamento pantonale di entità medio/grave.

In fase acuta è possibile riscontrare tutti i segni e sintomi di una sindrome vestibolare armonica periferica di tipo deficitario od irritativi (vertigine, nistagmo spontaneo, presenza di deviazioni segmentarlo-toniche). In fase intercritica lo studio della funzionalità vestibolare alle prove termiche può dimostrare una funzionalità vestibolare che inizialmente è normale ma che con il passare del tempo diviene caratterizzata da una iporeflettività parziale o totale.

Non esistono ad oggi esami di laboratorio specifici per la diagnosi della malattia di Menière.

Lo studio radiologico mediante RMN è utile per rilevare o escludere neoplasie/anomalie encefaliche, dell’angolo pontocerebellare e dell’orecchio interno (comprese le malformazioni congenite e la sindrome di Minor); la diagnosi differenziale va posta in particolare con i neurinomi e la sclerosi multipla. Nei pazienti con malattia di Menière è spesso possibile reperire un sacco endolinfatico più piccolo rispetto ai soggetti sani.

L’elettrococleografia nei soggetti affetti può registrare distorsioni specifiche dovute alle ripercussione sulle membrane dell’orecchio interno in seguito alle fluttuazioni della pressione perilinfatica. Nell’idrope, il rapporto tra la somma dei potenziali dovuti al movimento della membrana basilare ed il potenziale d’azione del nervo risulta aumentato di circa il 35%. Tale aspetto risulta più evidente nella fase attiva.


Fig. 1. Esame audiometrico (a) nella fase iniziale (solitamente fluttuante) e (b) in una fase più avanzata della malattia (solitamente stabile).


La diagnosi differenziale va posta con la fistola endolinfatica, labirintiti ricorrenti, emicrania, malformazioni dell’orecchio interno, sifilide, insufficienza vertebro-basilare, sclerosi multipla, tumori dell’angolo ponto-cerebellare, ecc.

Terapia. La terapia della Menière può essere comportamentale, medica ed infine chirurgica. In accordo con un dietologo andrebbe programmata attentamente una dieta iposodica. È necessario inoltre evitare l’assunzione di sostanze eccitanti (caffeina, nicotina), ed è opportuno ricordare anche che molti alimenti (soprattutto cibi affumicati ed insaccati) contengono nitrito di sodio, fattore che può notevolmente influenzare l’assorbimento giornaliero di sodio.

In fase acuta si possono somministrare sedativi della funzione labirintica, antiemetici e solitamente diuretici. Alcuni schemi terapeutici prevedono l’uso anche di cortisonici per via generale o intratimpanica. L’uso di farmaci vasoattivi (es. betaistidina) è suggerimento abituale anche se privo di dimostrazione scientifica.

Trattamenti semiconservativi sono: inserimento transtimpanico di tubicini di ventilazione (v. Fig. cap. 1.4.2.2.2) eventualmente associato al Meniett (dispositivo che produce variazioni intermittenti della pressione nell’orecchio medio) e l’iniezione intratimpanica di gentamicina.

L’iniezione intratimpanica di gentamicina comporta l’ablazione chimica del labirinto posteriore senza particolare danno al labirinto anteriore. Per mantenere però l’integrità della funzione uditiva va rispettato con molta precisione il protocollo. Ha una buona efficacia (fino al 95%). È sconsigliata nei pazienti anziani.

Nelle forme più severe e disabilitanti è possibile proporre procedure chirurgiche “conservative” della funzione uditiva, come la sezione del nervo vestibolare e la decompressione del sacco endolinfatico. Obiettivo della sezione del nervo vestibolare, nel condotto uditivo interno, per via della fossa media o via retrosigmoidea, è quello di eliminare selettivamente le afferenze che partono dal recettore vestibolare durante le crisi stesse. Il successo sul sintomo vertigine è del 98%.

La decompressione del sacco endolinfatico avviene rimuovendo l’osso petroso che circonda il sacco stesso: in tal modo il sacco sarebbe più libero di espandersi. È inoltre possibile creare un drenaggio verso la mastoide o lo spazio subaracnoideo. Sono riportati successi fino al 60-70% dei casi trattati, anche se questa metodica è stata negli ultimi anni sottoposta a severe critiche.

Meno utilizzate sono negli ultimi anni metodiche di distruzione chirurgica del labirinto posteriore (labirintectomia).


APPROFONDIMENTO


Terapia locale con gentamicina intra-timpanica

La terapia locale della malattia di Meniére con gli antibiotici aminoglicosidici prese avvio alla metà degli anni ’50 con Schuknecht, che per primo utilizzò la streptomicina per via intra-timpanica: questa modalità di somministrazione si dimostrò efficace nel controllare la vertigine invalidante, determinando la scomparsa della reflettività vestibolare alle prove termiche con stimolo freddo. Questo trattamento risultò però gravato dalla compromissione della funzione uditiva e pertanto non fu più impiegato fino alla fine degli anni ’70, allorché la somministrazione intra-timpanica di aminoglicosidi fu presa nuovamente in considerazione. Lo schema terapeutico fu modulato allo scopo di ottenere una riduzione della reflettività vestibolare piuttosto che la sua soppressione, interrompendo la somministrazione del farmaco alla prima comparsa di un calo uditivo. Questo determinò una rilevante riduzione degli effetti collaterali negativi a carico della coclea.

Attualmente la terapia locale intra-timpanica con gentamicina rientra nelle opzioni terapeutiche della malattia di Meniére resistente, per quanto attiene alla sintomatologia vertiginosa, al trattamento con diuretici osmotici associato alla restrizione sodica.

I più recenti protocolli terapeutici proposti in letteratura, seppure in assenza di dati conclusivi, suggeriscono la necessità di ricorrere a dosaggi e tempi di somministrazione modulati in funzione della riduzione/cessazione dei segni vestibolari spontanei, monitorizzando al tempo stesso la funzione uditiva e sospendendo la terapia locale alla comparsa dei primi segni di deterioramento uditivo a 0.5,1,2 e 4KHz.

Una recente meta-analisi (Chia et al., 2004) ha dimostrato che la somministrazione giornaliera o settimanale, modulata in relazione alla modificazione dei segni/sintomi vestibolari e uditivi, è da preferire alla somministrazione protratta a basse dosi, al trattamento settimanale o alla terapia che si avvale di più somministrazioni giornaliere. Tutti questi ultimi schemi terapeutici,infatti, sono accompagnati da una minore efficacia ai fini del controllo della vertigine e, al tempo stesso, da un maggiore rischio di calo uditivo.

Un recente lavoro pubblicato nel 2008 (Salt et al.) ha proposto infine la somministrazione di gentamicina intra-timpanica secondo un modello “ one-shot “ (0.3-1ml ), che, in relazione alla quantità di farmaco eliminata per via tubarica e alla ridotta permeabilità della membrana della finestra rotonda, comporta un minimo rischio di deterioramento della funzione uditiva espresso da un innalzamento della PTA.


1.4.3.2.2.3 Ipoacusia su base autoimmunitaria

Definizione. Le sordità autoimmuni rappresentano meno dell’1% di tutte le cause di sordità e sono caratterizzate da un danno dell’orecchio interno che progredisce rapidamente e che in un periodo variabile da alcune settimane sino a tre mesi diviene generalmente grave ed irreversibile. Questa rapida progressione della malattia è simile a quanto avviene nella glomerulonefrite autoimmune.

Eziologia. Una predisposizione genetica permette l’espressione di una risposta autoimmune non regolata verso un fattore patogeno ambientale sconosciuto, oppure attraverso meccanismi tuttora scarsamente compresi che includono un mimetismo molecolare e diffusione di epitopi.

Quadro clinico. La sordità autoimmune sembra più comune nelle donne tra i 20 ed i 50 anni di età e si manifesta con una perdita uditiva neurosensoriale, rapidamente progressiva, spesso fluttuante, bilaterale. La perdita uditiva progredisce in un arco di tempo che varia da alcune settimane sino a qualche mese e pertanto da un lato è troppo rapida per essere considerata come presbiacusia o come sordità progressiva su base genetica, dall’altro lato è troppo lenta per essere diagnosticata come sordità improvvisa. Disequilibrio, atassia, vertigine posizionale e crisi di vertigine acuta sono presenti nella metà dei casi almeno. La perdita uditiva è bilaterale nell’80% dei casi, anche se può interessare inizialmente un solo orecchio e può essere asimmetrica. Il 25-50% dei pazienti lamenta anche acufeni e pienezza auricolare, che possono fluttuare nel tempo. Una malattia sistemica di tipo autoimmune coesiste nel 15-30% dei casi (LES, artrite reumatoide, vasculite disseminata, sindrome di Sjögren, sarcoidosi, granulomatosi di Wegener, rettocolite ulcerosa, policondrite ricorrente). All’anamnesi sono raramente presenti malattie endocrine e/o febbri ricorrenti. L’otoscopia è generalmente normale anche se possono essere presenti un’infiammazione della cute o delle cartilagini dell’orecchio esterno, una paresi del facciale (ad esempio nella pericondrite ricorrente), come pure una necrosi tissutale della membrana timpanica, orecchio medio e mastoide (ad es. nella granulomatosi di Wegener, Fig. 1). La diagnosi differenziale comprende: malattia di Menière bilaterale, otosifilide, malattia di Lyme, toxoplasmosi, trattamento con farmaci ototossici, malattia di Charcot-Marie-Tooth, sindrome dell’acquedotto vestibolare allargato, ipertensione endocranica. Per quanto riguarda la m. di Menière si ritiene che circa il 16% delle forme bilaterali ed il 6% delle monolaterali possano avere una genesi immunitaria.


Fig. 1. Pericondrite padiglione sinistro in paziente con sindrome di Wegener.


Diagnosi. La diagnosi di malattia autoimmune può essere posta su tre diversi livelli di evidenza che, in ordine decrescente di importanza, sono: 1) dimostrazione diretta, 2) dimostrazione indiretta, 3) evidenza circostanziale. La dimostrazione diretta corrisponde all’induzione della malattia nell’uomo attraverso il trasferimento di auto-anticorpi o di cellule T auto-reattive: questo è eticamente impossibile. La dimostrazione indiretta deriva dall’induzione della autoimmunità in modelli animali mediante il trasferimento di autoanticorpi o di cellule reattive. L’evidenza circumstanziale si riferisce a: i) associazione con altre malattie autoimmuni, ii) infiltrazione linfocitaria dell’organo bersaglio, il che è impossibile da verificare poiché l’orecchio interno non permette una biopsia, iii) restrizione genetica alla perdita uditiva ed alla sordità autoimmune e iv) risposta alla terapia immunosoppressiva. Oggigiorno, modelli sperimentali di sordità autoimmune sono stati sviluppati in una varietà di animali. La relazione tra modelli sperimentali negli animali e riscontri sierologici nell’uomo si sono dimostrati significativi. Diversi studi sembrano dimostrare che gli aspetti geneticamente controllati del sistema immunitario possono aumentare od essere associati con un aumento della suscettibilità a differenti malattie dell’orecchio interno. Inoltre, l’attività autoimmune in pazienti con ipoacusia idiopatica è stata dimostrata mediante diverse tecniche di laboratorio. Infezioni virali del labirinto sono considerate causa principale di sordità e di patologie del sistema vestibolare. Teoricamente, una risposta immunitaria diretta verso a virus potrebbe produrre una reazione crociata con una proteina o con un autoantigene, innescando così una risposta autoimmune. Tuttavia, non vi è evidenza che gli studi sierologici utili ad escludere una causa virale nello sviluppo di una sordità autoimmune siano utili in ambito clinico. Pertanto, vi è attualmente una forte evidenza che meccanismi immunitari siano coinvolti nella patogenesi autimmune di queste sordità, anche se sino a questo momento nessuno dei test proposti per la diagnosi di sordità autoimmune sembri essere utile o fattibile nella pratica clinica.

Indagini di laboratorio. I test antigene specifici (test di inibizione della migrazione, test di trasformazione dei linfociti e Western blot) sono scarsamente affidabili o non applicabili nella pratica clinica. In particolare un test presente in commercio in Italia, l’OTOblotTM ® è stato utilizzato nella pratica clinica per oltre 15 anni. Il test utilizza un antigene purificato da rene bovino (hsp-70kDa) che dovrebbe reagire con una “heat shock protein “ del peso di 70 kD. In realtà è ormai accertato che l’antigene bersaglio non è una heat shock protein (ovvero una proteina espressione di uno stato di sofferenza cellulare) ma un trasportatore della colina (CTL2) e vi è generale consenso che il test non abbia alcuna utilità clinica.

Nella pratica clinica si possono pertanto utilizzare solo test antigene-non-specifici. In particolare, una batteria di test generalmente raccomandata è costituita da:

1) test per le malattie autoimmuni

livello degli immunocomplessi circolanti, VES, ANA, Raji-cell, fattore reumatoide, complemento C1Q, anticorpi antimuscolo liscio, TSH ed anticorpi antimicrosomiali, anticorpi antigliadina (per la malattia celiaca), HLA

2) test per escludere condizioni che simulano malattie autoimmuni

test per la sifilide (FTA, VDRL), test di Lyme, HBA1C (per il diabete che può essere autoimmune), test per l’HIV (che si può associare a neuropatia diabetica)

Recentemente questa batteria di test è stata confrontata con un panel ristretto di esami dimostrando una superiorità modesta, forse non tale da giustificarne il costo. Il dosaggio degli ANA e l’immunofenotipo del linfociti del sangue periferico ha dimostrato infatti una sensibilità quasi identica, con un costo 5 volte inferiore rispetto alla batteria più ampia sopra riportata.

Terapia. Attualmente si consiglia il prednisone, 1 mg/Kg/die per 4 settimane seguito da una lenta riduzione del dosaggio sino ad una dose di mantenimento di 10-20 mg/die o a giorni alterni. Terapie più brevi o terapie a basso dosaggio si sono dimostrate inefficaci ed aumentano il rischio di ricadute. In caso di nuovo peggioramento o di ricomparsa di acufene è indicato riprendere il dosaggio iniziale e ripetere tutto il ciclo di terapia.

In paziente che non rispondono al cortisone entro 6-8 settimane si possono utilizzare il methotrexate (MTX) ed il ciclofosfamide. Questi farmaci hanno notevole tossicità e la decisione sul loro impiego deve sempre essere multidisciplinare. La dose orale normale di MTX è 7.5-20 mg alla settimana associate ad acido folico. Il ciclofosfamide associato al cortisone viene utilizzato alle dosi seguenti: 5mg/Kg/die intravenoso per 2 settimane, seguito da una pausa di 2 settimane ed altre 2 settimane di infusione.

L’identificazione di un autoantigene in questi pazienti sarebbe di grande utilità, ma purtroppo questo è ancora impossibile nella pratica clinica. Studi sperimentali sembrano dimostrare come sia possibile ristabilire una omeostasi immunitaria attraverso la somministrazione temporanea di sostanze immunoregolatrici attraverso la terapia genica.

Conclusioni. Vi è oggi una forte evidenza clinica e sperimentale che meccanismi autoimmunitari possano causare un danno dell’orecchio interno. Questo danno risponde abbastanza bene alla terapia steroidea, che può pertanto arrestare la perdita uditiva. Molti antigeni sono stati testati, ma nessuno ha dimostrato una chiara e costante associazione con una patologia localizzata all’orecchio interno. Pertanto, la diagnosi è purtroppo ancora empirica e si basa sul sospetto clinico associato alla risposta ai farmaci immunosoppressori.


1.4.3.2.2.4 Ipoacusia su base traumatica

I traumi dell’orecchio interno (o in genere dell’osso temporale) possono produrre ipoacusia e sintomi vestibolari in modi differenti: 1. concussione labirintica, 2. fratture dell’osso temporale, 3. Ferite/traumi penetranti e 4. barotrauma. I traumi acustici sono riportati in un paragrafo successivo.

1) Concussione labirintica: un trauma cranico, anche senza evidenti fratture labirintiche, può causare un danno delle strutture labirintiche. Secondo Schuknecht, due sono i meccanismi possibili: un’onda pressoria trasmessa alla coclea tramite l’osso, o un rapido movimento della platina da inerzia della membrana timpanica e catena ossiculare in presenza di una rapida accelerazione o decelerazione. Anche se in molti casi il trauma è stato tale da provocare perdita di coscienza, una ipoacusia neurosensoriale può essere osservata anche in caso di traumi meno gravi (Fig. 1). A livello vestibolare, il quadro più frequente è la vertigine posizionale parossistica (VPPB che può comparire anche a distanza di tempo). Dopo un colpo di frusta, nel 50% dei casi è riportato un danno vestibolare.

2) Fratture dell’osso temporale: quando c’è una improvvisa collisione tra la testa ed un oggetto solido o semisolido. La frattura più frequente (80%) è quella longitudinale (da forze laterali dirette), coinvolge la capsula otica e i fori della base cranica (carotide e bulbo della giugulare) e può estendersi all’articolazione temporo-mandibolare. Nel 15-20% dei casi c’è un coinvolgimento del facciale (ganglio genicolato o tratto orizzontale); la paralisi del facciale è di solito tardiva e conseguenza più dell’edema che di una diretta interruzione del nervo. 


Fig. 1. Esame audiometrico in caso di trauma cranico con frattura temporale sinistra e ipoacusia neurosensoriale sinistra (a) e in un altro caso (b) sempre con frattura temporale sinistra, ma ipoacusia neurosensoriale bilaterale (concussione labirintica).


L’ipoacusia neurosensoriale è prevalente sulle frequenze acute (a tipo trauma acustico) e probabilmente più di origine concussiva che da danno diretto sul labirinto; frequente una componente trasmissiva da dislocazione della catena ossiculare; il danno vestibolare non è sempre presente, ma può comparire una VPPB. Nel 20% dei casi le fratture sono trasverse (provocate da forze con asse antero-posteriore); si tratta di traumi in genere più gravi con frequenti esiti maggiori; Il facciale è interessato nel 50% dei casi e frequentemente anche la carotide e la capsula otica. Il danno cocleo-vestibolare solitamente gravi. Le fratture trasverse sono spesso rivelate da un emotimpano. In altri casi, forse più frequentemente, si osservano delle fratture oblique o miste. Complicanze dei traumi/fratture del temporale sono: l’idrope endolinfatico, la fistola perinfatica (soprattutto controlaterale), oto-rino-liquorrea, meningite ritardata, colesteatoma e paralisi del facciale. In caso di liquorrea, sembra che l’uso profilattico di antibiotici riduca significativamente il rischio di meningite; per quanto riguarda l’opzione chirurgica, viene generalmente consigliato un atteggiamento di attesa per 7-10 giorni.

Le fratture del temporale sono la causa più frequente di danno del nervo facciale. L’imaging neuroragiologico con TAC ad alta risoluzione è necessario per stabilire il livello della frattura (Fig. 2); va ricordato che in caso di fratture longitudinali la sezione del nervo è presente nel 15% dei casi, mentre nelle trasverse è nel 92% dei casi. La RM può dare informazioni importanti su eventuali lesioni subcliniche del lobo temporale e cerebrali. Molto si discute sulle modalità e tempi di un intervento chirurgico di decompressione del facciale. Vi è un generale consenso in un trattamento conservativo in caso di paralisi incomplete e anche tardive. In caso di lesioni complete e immediate, la chirurgia va presa in considerazione quando non c’è evidenza di recupero clinica e assenza di risposta elettrica dopo una settimana, in caso di significativa lesione del temporale alla Tac, di progressivo declino della risposta elettrica.


Fig. 2. Uomo di 33 anni con ipoacusia neurosensoriale sinistra (a) da frattura del temporale sinistro (b) in seguito ad incidente automobilistico.


3) Ferite/traumi penetranti: quando è interessato l’orecchio, coinvolgono sia la parte esterna, media ed interna, il facciale, spesso la carotide e le strutture endocerebrali (Fig. 3).

4) Barotraumi: i traumi da rapida variazione pressoria sono frequenti tra i sommozzatori, chi vola, ma anche tra chi usufruisce di trattamenti in camera iperbarica. I sintomi sono: sensazione di orecchio chiusa, dolore auricolare, ipoacusia, vertigine, acufeni ed in alcuni casi emorragia dal condotto uditivo esterno. Rapide modificazioni della pressione possono causare un dislocamento della platina con conseguente vertigine e ipoacusia neurosensoriale. Gli stessi spostamenti pressori applicati direttamente sulle finestre rotonda ed ovale possono indurre un barotrauma dell’orecchio interno con ipoacusia e vertigine (Fig. 4). Vanno distinte due forme: la IEDS (inner ear decompression sickness) che si osserva durante la decompressione (salita), dal barotrauma vero e proprio che si ha durante la compressione (discesa). Solitamente il barotrauma dell’orecchio interno si accompagna a quello dell’orecchio medio con emorragia o perforazione della MT; ma l’assenza di questo reperto non esclude il danno endolabirintico. I meccanismi che causano il danno sono di due tipi: forze di tipo implosivo o esplosivo, a seconda della pervietà tubarica. Se la tuba viene aperta (con una manovra di Valsalva) improvvisamente, il rapido aumento della pressione nell’orecchio medio causa un infossamento della finestra rotonda ed una estroflessione della finestra ovale; se le forze sono sufficientemente violente, si può arrivare ad una implosione della f.r. ed una rottura del legamento anulare della platina. Se la tuba è bloccata, una manovra di Valsalva produrrà un aumento busco della pressione del liquor endocranico che si potrà trasmettere tramite il dotto cocleare o il condotto uditivo interno al dotto cocleare aumentandone la pressione; anche in questo caso si potrà avere una rottura della membrana della f.r. o del legamento della f.o.. Entrambi questi meccanismi possono causare rotture della membrana di Reissner, membrana basilare, sacculo, utricolo e canali semicircolari. Nella IEDS si producono invece bolle gassose al di sotto della f.r..Nel barotrauma con danno cocleare si osserva una ipoacusia neurosensoriale non fluttuante sulle frequenze acute. Il trattamento è farmacologico (vasodilatatori, cortisonici, istamina) oltre al riposo a letto. Nel barotrauma con formazione di fistola perilinfatica (che solitamente è a livello del bordo anteriore della f.o.) l’ipoacusia neurosensoriale o mista è fluttuante e la vertigine è peggiorata dai cambiamenti di posizione; l’applicazione di una pressione al condotto uditivo provoca nistagmo. 


Fig 3. Ipoacusia di tipo misto a destra (a) in paziente con perforazione della MT destra da cotton fioc; il paziente presentava anche nistagmo spontaneo verso sinistra e bolla ematica nel vestibolo alla TAC (freccia).


Fig. 4. Paziente con ipoacusia destra dopo immersione (a) e stesso paziente dopo una settimana (b); al successivo intervento di timpanotomia esplorativa, riscontro di frattura della platina.


Il trattamento comprende riposo a letto con la testa elevata e periodici audiogrammi. Il periodo di tempo in cui il paziente va tenuto in osservazione prima della timpanotomia esplorativa, è molto controverso. La gravità della ipoacusia sembra l’indicatore più importante per decidere se intervenire chirurgicamente. Al riscontro otomicroscopico di una fistola, segue ovviamente la sua chiusura con grasso, fascia, coagulo ematico.Nel caso di IEDS il trattamento è la immediata ri-compressione in camera iperbarica. Ovviamente la corretta diagnosi è cruciale, in quanto questo trattamento peggiora il quadro in caso di fistola perilinfatica o danno endococleare.


1.4.3.2.2.5 Ototossicosi

I principali farmaci che possono causare un danno uditivo e/o disturbi dell’equilibrio sono riportati in Tab. I.


Antibiotici aminoglicosidici

Altri antibiotici

Altri farmaci

Streptomicina

Vancomicina

Chinino e derivati

Neomicina

Eritromicina e.v.

Chinidina

Kanamicina

Minociclina

FANS Acido Acetilsalicilico - Ibuprofene, Ketoprofene, Fenilbutazone

Gentamicina

Ciclosporina

+Antineoplastici: Cisplatino, Vincristina, Vinblastina, Bleomicina

Tobramicina

Diuretici dell’ansa (furosemide ecc.)

Amikacina

Amfotericina B

Tab. I.


Tra gli antibiotici amino glicosidici, streptomicina, gentamicina e tobramicina sono più tossici per il sistema vestibolare, meno per la coclea. All’opposto, neomicina, kanamicina ed amikacina sarebbero più dannosi per la coclea rispetto al vestibolo. Va ricordato tuttavia, che tutti questi antibiotici, pur in misura diversa tra loro, sono dannosi per entrambi i sistemi e sono inoltre nefrotossici.

La neomicina è la più tossica per la coclea ed il suo impiego andrebbe limitato ad un uso topico. E’presente in alcuni tipi di gocce auricolari che possono avere effetto ototossico se raggiungono l’orecchio medio, ovvero se applicate in presenza di perforazione timpanica. Inoltre, la somministrazione topica può essere ototossica se applicata su vaste aree cutanee o mucose come nelle ustioni e nelle irrigazioni peritoneali o rettali. Gli antibiotici amioglicosidici sono escreti quasi totalmente per via renale ed una insufficienza renale può aumentarne la concentrazione tissutale con maggior rischio di ototossicità. I livelli di creatinina vanno pertanto monitorati prima e durante il trattamento. La vancomicina è potenzialmente ototossica, ma soprattutto aumenta la tossicità degli aminoglicosidici se somministrata in associazione.

L’eritromicina ha dimostrato effetti ototossici solo nella somministrazione endovenosa a dosi superiori ai 4 g/die.

L’acido acetilsalicilico può avere effetti ototossici solo a dosaggi molto elevati e per periodi protratti.

Il cisplatino può produrre lesioni cocleari alle dosi comunemente utilizzate in oncologia. Il danno cellulare è stato studiato in modelli animali e questo ha permesso di evidenziare come le lesioni interessino inizialmente le cellule ciliate esterne (Fig. 1), partendo dalla prima fila nel giro basale, successivamente le cellule di supporto, la membrana di Reissner e la stria vascolare. Queste alterazioni morfologiche sono verosimilmente prodotte da un blocco nei canali di trasduzione delle cellule ciliate esterne e sono generalmente progressive ed irreversibili. Il fatto che la tossicità da cisplatino produca una perdita delle cellule ciliate esterne per fenomeni apoptotici ha generato un notevole interesse verso sostanze potenzialmente in grado di proteggere l’orecchio interno nei confronti del cisplatino, senza peraltro interferire con l’attività dell’antineoplastico in se. Studi sull’animale ed osservazioni cliniche nell’uomo sembrano dimostrare che la famiglia dei tiosolfati possa avere un effetto protettivo nei confronti della tossicità da cisplatino.


Fig. 1. SEM organo del Corti di ratto trattato con cisplatino: si noti il danno presente a livello delle ciglia delle CCE.


1.4.3.2.2.6 Acufeni

Definizione.Con il termine di acufene, di origine greca (akouein, udire e phanein, apparire), si definisce una sensazione uditiva che origina all’interno del soggetto che la percepisce (acufene soggettivo), in assenza di uno stimolo sonoro ambientale, riferita all’uno o all’altro orecchio, talvolta localizzata al centro della testa. Esiste anche un acufene definito oggettivo, molto più raro dell’acufene soggettivo, generalmente di origine vascolare o meccanica, percebile anche da parte dell’esaminatore che valuta il soggetto.

Vanno distinte dagli acufeni le allucinazioni uditive, che corrispondono alla percezione da parte del soggetto, di voci o frammenti di brani musicali, generati solitamente da patologie che interessano il lobo temporale o l’ippocampo.

Epidemiologia. Gli acufeni costituiscono un sintomo uditivo molto frequente, interessando circa il 7-10% della popolazione generale: molto più ridotta è invece la percentuale di soggetti che lamentano un acufene invalidante, tale da compromettere le attività della vita quotidiana, relazionali, professionali, affettive e/o la qualità del sonno (0.5%).

Gli acufeni interessano entrambi i sessi, con una lieve predominanza per quello maschile, in relazione a una sua maggiore esposizione al rumore; l’età di insorgenza è intorno ai 50 anni, con una tendenza ad aumentare fino a 60-65 anni.

Tutte le sedi che costituiscono la periferia uditiva nonché le vie uditive centrali fino alla corteccia, possono essere responsabili della comparsa dell’acufene, sebbene sia la coclea ad essere più spesso coinvolta nella sua insorgenza.

Eziopatogenesi. Esistono diverse teorie patogenetiche ritenute responsabili della comparsa degli acufeni:

1) disaccoppiamento tra le stereociglia e la membrana tectoria, responsabile di un aumento del rumore di fondo, quale conseguenza di un trauma acustico,acuto o cronico, di ototossicità o dell’invecchiamento fisiologico dell’orecchio interno. Anche una variazione dell’omeostasi del calcio, implicato nel corretto funzionamento dei canali per il potassio a livello delle CCI, può essere responsabile di un’anomala depolarizzazione delle stesse, con conseguente comparsa di un ‘informazione “aberrante” per le fibre afferenti;

2) ruolo del sistema efferente olivo-cocleare mediale e laterale: il S.N.C. modula l’attività dell’organo di Corti tramite il fascio olivo-cocleare, i cui nuclei sono situati nel tronco encefalico.Il sistema mediale proietta principalmente sulla coclea controlaterale e utilizza come neuro-mediatori l’acetilcolina, il GABA e/o il peptide legato al gene della calcitonina (GCRP). Il sistema olivo-cocleare laterale (50-70% del fascio efferente) proietta sulla coclea omolaterale e forma delle sinapsi sui dendriti delle CCI, impiegando come neuro-mediatori dei neuro-peptidi, quali le encefaline e le dinorfine. Gli acufeni potrebbero derivare da una ridotta efficienza del sistema efferente, responsabile di una maggiore attività spontanea delle CCI. Non trascurabile sarebbe il ruolo del glutamato, utilizzato come mediatore dai neuroni uditivi primari, rapido ma tossico se liberato in grande quantità. È stato ipotizzato che alla base di certi tipi di acufeni esista una “ipereccitabilità” delle fibre del nervo acustico, correlata all’attività di recettori glutamatergici. Un altro aspetto che va considerato riguarda i rapporti tra il sistema olivo-cocleare e i nuclei del S.N.A., alla base dell’effetto che lo stress produce sul decorso degli acufeni e sui sintomi che spesso li accompagnano (tachicardia, ansia, turbe del sonno).


Infine merita attenzione l’osservazione che esistono alcune analogie tra l’acufene e il dolore cronico, sia in termini di esperienza sensoriale/emozionale spiacevole correlata a un danno tissutale, sia in ragione dell’esistenza, a livello dell’organo di Corti come nel midollo spinale, di fibre di grosso diametro provenienti dalle CCI e fibre di piccolo diametro provenienti dalle CCE. Una ridotta attività inibitoria svolta dalle fibre amieliniche potrebbe essere coinvolta nella comparsa dell’acufene. Anche il mascheramento da parte di stimolazioni sonore sincrone rappresenta un’analogia tra i due sintomi.

Eziologia. Nella maggior parte dei casi l’acufene soggettivo, isolato o più spesso associato ad altri sintomi uditivi, è la conseguenza di una cocleopatia, ad insorgenza acuta o progressiva.

Tra le cause più frequenti si ritrovano:

1) infezioni, virali o batteriche, responsabili di labirintiti;

2) traumi acustici, acuti o cronici, legati a un danno da glutamato, principale mediatore neuro-sensoriale dell’organo di Corti, ototossico per le CCI se liberato in eccesso come accade per effetto dell’esposizione prolungata a rumore (es. per cause professionali), oppure per l’esposizione di breve durata a suoni di elevata intensità (es. cause voluttuarie);

3) traumi cranici, con o senza frattura della rocca petrosa, sono responsabili di una commozione labirintica che si può accompagnare a un acufene transitorio o permanente;

4) barotraumi;

5) farmaci oto-tossici (aminoglicosidi, ac.acetilsalicilico a forti dosi, cis-platino,chinino); intossicazione da piombo,mercurio e CO2;

6) ipoacusia improvvisa da cause vascolari o virali;

7) malattia di Menière;

8) otospongiosi: 30% circa dei pazienti affetti presenta acufeni, generalmente a tonalità grave.Il trattamento chirurgico dell’otosclerosi, qualora indicato, determina la scomparsa degli acufeni in modo incostante e non prevedibile;

9) patologie micro-vascolari: la circolazione cocleare, dipendente dal circolo vertebro-basilare, è di tipo terminale e pertanto turbe del micro-circolo da vasospasmo o da lesione embolica, determinano un’ipossia irreversibile delle cellule ciliate. Condizioni patologiche sistemiche, quali ipertensione arteriosa, aterosclerosi, anemia, iperviscosità ematica, turbe metaboliche (diabete, dislipidemia,iperuricemia, carenze vitaminiche o di folati), kinking dei vasi endocranici, artrosi, sono spesso associate alla presenza di acufeni;

10) fattori psichici: gli acufeni si osservano spesso in associazione a condizioni di stress o di depressione;

11) forme idiopatiche: molto frequenti, spesso associate a ipoacusia.


Qualora gli acufeni soggettivi non siano associati a una cocleopatia, sarà necessario ecludere una patologia extra-otologica (rara), una sindrome di Costen (disfunzione dell’ATM), un disordine stomatologico, cause flogistiche naso-sinusali.

Tra le cause otologiche coinvolgenti l’orecchio esterno, va ricordata l’occlusione del CUE per presenza di un tappo di cerume o corpo estraneo, l’otite esterna diffusa: l’ipoacusia trasmissiva associata determina la perdita del “mascheramento” del rumore fisiologico di fondo ad opera del rumore ambientale.

Anche nel caso di patologie flogistiche a carico dell’orecchio medio (otosalpingite, otite media acuta con perforazione della MT) o di sequele timpanosclerotiche, si osserva la presenza di acufeni, in relazione ad aumentata vascolarizzazione della mucosa infiammatoria e/o per modificazione della meccanica timpano-ossiculare.

In presenza di un acufene unilaterale, va esclusa, in funzione del contesto anamnestico e quindi della presenza o meno di rilevanti fattori di rischio, una possibile lesione retro-cocleare, ad esempio uno schwannoma vestibolare.

Diagnosi differenziale.

1) Allucinazioni uditive, in relazione a patologie centrali, da inquadrare con una visita neurologica e con uno studio neuro-radiologico con RMN.

2) Acufeni oggettivi pulsanti, poco frequenti, percebili da parte dell’esaminatore auscultando con lo stetoscopio i vasi epi-aortici in sede cervicale, la regione orbitarla e temporale: in questi casi è indicato uno studio angiografico, mediante Eco-color Doppler, angiografia, angio-RM. Le cause di un acufene oggettivo pulsante possono ricondursi alla patologia tumorale (tumore glomico o chemodectoma del glomo giugulare, tumore del glomo carotideo, raramente meningioma), patologia ateromasica o aneurismatica dell’arteria carotide comune o interna, decorso anomalo della carotide interna, fistole artero-venose generalmente post-traumatiche, ectasie del bulbo giugulare, ipertensione endocranica benigna (accompagnata spesso da cefalea, riduzione dell’acuità visiva e talvolta ipoacusia), malattia di Paget, ipertensione arteriosa.

3) Acufeni oggettivi non pulsanti, da beanza tubarica (acufeni sincroni con la respirazione, scompaiono durante l’apnea), mioclonie del palato molle (a tipo clic) che si osservano durante l’orofaringoscopia, da lesione muscolare per contrazione tetaniforme del muscolo tensore del timpano o del muscolo stapediale, rilevabile con impedenzometria.


Inquadramento diagnostico. L’inquadramento diagnostico del paziente affetto da acufeni richiede, innanzi tutto, un’accurata raccolta dell’anamnesi: va ricercata la presenza, in ambito familiare o nella storia clinica pregressa, di patologie uditive e/o dismetaboliche.Si porrà attenzione ai precedenti patologici del soggetto, all’uso di farmaci, all’attività professionale svolta, alle abitudini voluttuarie nonché al suo profilo psicologico. Sarà necessario acquisire informazioni dettagliate che caratterizzino l’acufene: uni-bilateralità,con particolare attenzione all’inquadramento di un acufene unilaterale sospetto per una patologia retrococleare, modalità d’insorgenza, andamento temporale, fattori aggravanti (stress, assunzione di bevande alcoliche), interferenza con il sonno. Va sottolineata l’importanza che il paziente che presenta degli acufeni vada ascoltato, rassicurato e, se indicato, sottoposto ad accertamenti diagnostici mirati.

All’anamnesi segue una attenta valutazione obiettiva ORL, che comprende l’esame della situazione dentaria e dell’ATM, del velo palatino, della regione cervicale, anche in assenza di acufene pulsante.

Le indagini strumentali audiometriche hanno lo scopo di riconoscere un’eventuale ipoacusia associata all’acufene, definendone il carattere trasmissivo o neurosensoriale; l’acufenometria permette la misura delle caratteristiche fisiche dell’acufene, intensità, altezza tonale, possibilità di mascheramento. Le indagini vestibolari sono indicate laddove l’acufene sia accompagnato da vertigine.

Le indagini neuroradiologiche con TC, RMN, angio-RM sono indicate qualora, in base all’anamnesi, alla valutazione obiettiva e ai risultati delle indagini strumentali audiometriche, vi sia il sospetto di una patologia dell’orecchio esterno, medio o delle strutture retro-cocleari.

Va però sottolineato che, di fronte a un paziente con acufeni, l’iter diagnostico deve essere modulato in funzione degli elementi emersi dalla raccolta di un’accurata anamnesi e dalla attenta valutazione clinico-obiettiva.

Trattamento. Il trattamento degli acufeni è condizionato dalla possibilità di definirne una diagnosi ezio-patogenetica (es. ipoacusia improvvisa, patologia infiammatoria dell’orecchio medio, patologia retro-cocleare). Quando ciò non sia possibile, è pur sempre necessario rassicurare il paziente in merito alla possibile natura transitoria del disturbo, al fine di evitare l’instaurarsi di uno stato di “allame” che compromette l’instaurarsi dei fenomeni di adattamento.

Tra le molteplici opzioni terapeutiche, alcune spesso di dubbia efficacia, meritano attenzione:

1) TRT o Tinnitus Retraining Therapy, descritta da Jastreboff (1990), fondata sull’obiettivo di bloccare un’attività neuronale generata dall’acufene, mediante una riduzione dell’attività corticale e limbica in risposta alle informazioni uditive (habituation); al tempo stesso la TRT intende ridurre le associazioni emozionali e cognitive “negative “ legate all’acufene e richiede un aumento delle stimolazioni acustiche esogene, mediante l’uso di generatori di rumore bianco o di protesi acustiche;

2) psicoterapia cognitiva, fondata sul principio della plasticità neuronale, che richiede una attiva collaborazione da parte del paziente;

3) tecniche di rilassamento, poiché è molto frequente l’esordio dell’acufene durante un periodo di stress, in associazione eventualmente a farmaci ansiolitici, evitando al tempo stesso l’instaurarsi di una dipendenza;

4) trattamento audio-protesico: con protesi acustiche, in presenza di una perdita uditiva, allo scopo di potenziare il rumore di fondo in grado di mascherare l’acufene e di ripristinare la funzione coclearie. In presenza di normoacusia, è possibile ricorrere all’impiego di generatori di rumore a banda larga (rumore bianco), in grado di attenuare la percezione dell’acufene senza mascherarlo completamente. Lo scopo è quello di attivare, grazie alla plasticità neuronale, dei meccanismi in grado di promuovere l’habituation, elevando la soglia uditiva centrale nei confronti del disturbo;

5) terapia farmacologia: la terapia locale con l’ausilio di micro-pompe infusionali a lento rilascio di farmaci nell’orecchio interno, rappresenta a tuttoggi una via sperimentale, oggetto di interessanti ambiti di ricerca. La somministrazione di farmaci per via generale risente, per la maggior parte delle sostanze a disposizione, del ruolo giocato dai fenomeni di adattamento, dall’effetto placebo rilevante, dalla mancanza di misure oggettive del disturbo. Numerose sono le categorie di farmaci utilizzate: i vasodilatatori (azione sulla stria vascolare sensibile all’ipossia), gli istamino-simili, in analogia a quanto proposto per la malattia di Menière, farmaci psicotropi quali le benzodiazepine, gli anti-depressivi triciclici a basse dosi (nortriptilina), per gli effetti antalgici centrali, soprattutto nei pazienti con acufeni invalidanti in relazione al tono dell’umore;

6) stimolazioni elettriche con corrente alternata positiva: il loro utilizzo, seppure non standardizzato, si fonda sulle analogie neurofisiologiche tra l’acufene cronico e il dolore;

7) agopuntura: la sua efficacia, a tipo “placebo”, è correlata al profilo psicologico del paziente.