15. COMPLICANZE NEUROLOGICHE

GIANCARLO COMI • FRANCESCA CASO • CLAUDIA ARCARI • MONICA FALAUTANO • GIUSEPPE MAGNANI

La sindrome di Down (SD) è la patologia genetica da aberrazione cromosomica più comunemente osservata nella pratica clinica e determina negli individui affetti una serie di complicanze nei vari sistemi dell’organismo. In questa sezione ci occuperemo in particolare delle complicanze neurologiche che si possono osservare nella sD dalle più frequenti, quali la demenza Alzheimer-like e l’epilessia, alle meno comuni, quali la mielopatia da instabilità atlanto-assiale oltre che dell’associazione osservata tra questa sindome ed un’ampia gamma di patologie neurologiche, dalla Moyamoya alla sindrome di Gilles De La Tourette.


Sindrome di down e demenza

La prevalenza della demenza di Alzheimer (AD= Alzheimer’s Disease) nei pazienti con SD aumenta con l’avanzare dell’età, attestandosi intorno a valori pari all’8% tra i 35 e 49 anni, al 55% tra i 50-59 anni ed al 75% dopo i 60 anni di età (1). In uno studio del 2001 condotto su 285 pazienti con DS è stata riscontrata una prevalenza della demenza di circa il 13% e con un’età media di esordio intorno ai 54,7 anni d’età (2). Sembra inoltre che un miglior livello di funzionalità cognitiva sia associato ad un più basso riscontro di demenza sottolineando il fatto che fattori ambientali, come il livello di scolarizzazione e le attività svolte, possono essere utili nel ritardare l’esordio del decadimento cognitivo (3).

Benché le alterazioni anatomo-patologiche tipiche dell’AD (placche neuritiche extracellulari di P-proteina o P amiloide ed ammassi intracellulari neurofibrillari) siano state riscontrate nel cervello di soggetti con DS di età superiore ai 32 anni, tuttavia non tutti sviluppano una demenza.

Nell’AD vi è un accumulo anomalo e progressivo di P-amiloide (peptide di 40-42 aminoacidi che per le sue caratteristiche chimico-fisiche tende ad aggregare spontaneamente in fibre di amiloide) proporzionalmente alla sua gravità. La P-amiloide è il fisiologico prodotto metabolico di un precursore, una glicoproteina transmembrana denominata App (Amyloid Precursor Protein), particolarmente espressa nei neuroni, il cui gene è localizzato nel cromosoma 21. La P-amiloide deriva dall’azione sull’APP di due proteasi intracellulari, chiamate P- e y- secretasi, con conseguente formazione di due frammenti di P-amiloide da 40 e 42 aminoacidi (AP40 e AP42 peptide, rispettivamente). Le due varianti sono secrete all’esterno degli spazi extracellulari e si ritrovano a basse concentrazioni ed in forma solubile nei fluidi biologici (plasma e liquor) in condizioni fisiologiche. Al contrario, nel cervello di soggetti normali la P-amiloide è completamente assente e ciò dipenderebbe da meccanismi fisiologici, non ancora del tutto noti, che consentono la rapida eliminazione della molecola tossica dagli spazi cerebrali extracellulari. secondo l’ipotesi amiloidogenica, per effetto di un’aumentata produzione o di un diminuito smaltimento, la concentrazione di P-amiloide aumenta progressivamente fino a raggiungere una concentrazione critica di polimerizzazione (4). Tale stato di polimerizzazione con successiva organizzazione dell’amiloide in placche neuritiche innesca nei neuroni uno “stress ossidativo”, che induce una degenerazione accompagnata da alterazioni del citoscheletro e termina con la morte neuronale.

In particolare nei soggetti con SD c’è un’aumentata produzione di P-amiloide totale per il sovradosaggio del gene dell’APP che è situato sul cromosoma 21 che è triplicato nella SD. Sempre sul cromosoma 21 è stato identificato un gene che codifica l’enzima che agisce sul sito di clivaggio P dell’APP (detto BACE2= P-site of APP clearing enzyme) e che quindi contribuisce all’accumulo di P-amiloide. Alterazioni nell’espressione di BACE2 sono state indagate con tecniche di immunoistochimica nella corteccia frontale dei soggetti con SD: è stata riscontrata la presenza di BAcE2 nelle inclusioni fibrillari intraneuronali di cervelli di soggetti anziani con neuropatologia AD-like ma non in quelli di soggetti con SD privi di alterazioni anatomo-patologiche AD-like o di controlli sani. Ciò supporta l’ipotesi che elevati livelli di BACE2 si correlino all’insorgenza di un pattern neuropatologico AD-like nella SD (5). Recentemente è stata riscontrata un’associazione tra il polimorfismo metionina/metio-nina (M/M) al codone 129 del gene per la proteina prionica ed il decadimento cognitivo in individui anziani (6). In aggiunta è stato documentato un declino significativamente più veloce delle capacità intellettive di soggetti con SD che presentano nel codone 129 almeno un allele “valina” rispetto a quelli con polimorfismo M/M, ed un ulteriore effetto deleterio è esercitato dall’eventuale presenza nel genotipo degli individui analizzati dell’isoforma e4 dell’ApoE (7).

Dal punto di vista anatomo-patologico nei soggetti con SD P-peptidi solubili, che risultano dalla processazione dell’APP, sono rilevabili nel cervello decenni prima della deposizione extracellulare in placche neuritiche. inizialmente si osserva un’aumentata immunoreattività per APP e AP43 nei neuroni e poi dai 32 anni di età compare l’immunoreattività per AP43 e AP42 in placche diffuse. L’APP e AP43 sono caratteristicamente osservati negli assoni attorno alle placche senili e infine l’immunoreattività per l’AP40 è rilevata nel “core” delle placche senili. Questa progressione nell’espressione immunoreattiva potrebbe essere correlata al processo patogenetico della demenza AD-like che si osserva nella SD, per cui il danno assonale nelle placche senili potrebbe condurre alla formazione di aggregati neurofibrillari o alla morte neuronale attraverso alterazioni del flusso assonale ed accumulo di AP43 nei neuroni corticali (8). Inoltre i livelli plasmatici di AP42 sono aumentati nei soggetti con SD anziani ma non nei giovani (9). Questi peptidi solubili si accumulano all’interno dei neuroni e possono essere secreti extracellularmente. L’endocitosi ha un ruolo fondamentale nella patogenesi dell’AD. Gli endosomi, uno dei maggiori siti di generazione degli AP-peptidi, sono marcatamente aumentati di volume nei neuroni dei soggetti con AD, suggerendo un’alterazione del funzionamento del pathway endocitico (EP=Endocytic Pathway). Queste anormalità sono state riscontrate nei neuroni piramidali della neocorteccia quando la neuropatologia AD-like, cosi’ come la deposizione di P-amiloide, sono ristrette alla regione entorinale. Nella SD gli endosomi sono significativamente aumentati di volume in alcuni neuroni piramidali fin dalla 28 settimana di gestazione, decadi prima del classico sviluppo neuropatologico AD-like. La presenza dell’isoforma e4 dell’ApolipoproteinaE (proteina prodotta dalla glia e coinvolta nella clearance del P-peptide), determinava un’ulteriore accentuazione dell’allargamento endosomiale a stadi pre-clinici dell’AD. All’opposto il riscontro di endosomi di taglia normale in stadi avanzati di AD familiare causato da mutazioni della Presenilina 1 o 2, indicava che l’alterazione dell’endocitosi non è una conseguenza della deposizione di P-amiloide. Tali risultati evidenziano che l’attivazione dell’EP è uno dei più precoci cambiamenti intraneu-ronali che avvengono nell’AD sporadico, e che potrebbe avere un ruolo importante nella deposizione di P-amiloide (10). Si è poi dimostrato che in soggetti con SD di età superiore ai 50 anni non c’era una continua tendenza all’accumulo di P-amiloide, come se il carico lesionale aumentasse fino a raggiungere un plateau. inoltre nel cervello dei pazienti con DS con l’isoforma e4 dell’ApolipoproteinaE si rilevava più del doppio del quantitativo di amiloide rispetto ad individui con differenti varianti alleliche (11).

Come già accennato prima, l’apolipoproteina E è una lipoproteina presente nel cervello, prodotta dalle cellule gliali e coinvolta nella clearance della P-proteina ma anche nella riparazione della membrana neuronale. Esiste in tre differenti varianti alleliche (e2, e3 e e4), in particolare l’allele e4 si correla ad un rischio aumentato di AD e, al contrario, l’allele e2 avrebbe un ruolo protettivo nei confronti della malattia (12).

Circa la presentazione clinica della demenza nei soggetti con SD non poche sono le difficoltà diagnostiche, in quanto spesso i sintomi possono essere atipici o misconosciuti per il quadro di deficit cognitivo pre-esistente. Si parla in questo caso di “mascheramento psicosociale”, riferendosi alle abilità sociali non maturate ed alle mancate esperienze di vita di un soggetto con SD, che spesso non è in grado di spiegare verbalmente i propri sintomi per difficoltà di comunicazione, per cui sono spesso più informativi i loro caregiver. Per “penombra diagnostica” (“diagnostic overshadowing” secondo Reiss) (14) si intende l’attribuzione di cambiamenti nel comportamento o nelle abilità sociali alle difficoltà di apprendimento pre-esistenti nell’individuo con SD o ad un disordine di tipo psichiatrico.

All’esordio della demenza i sintomi possono manifestarsi con difficoltà di memoria, apprendimento e orientamento, che nel soggetto con SD si traducono in una maggiore dipendenza di questi dal caregiver (15). Soprattutto in soggetti giovani (30-49 anni) è stata riscontrata una variante frontale, con precoci cambiamenti nel comportamento e nella personalità spesso su un quadro pre-esistente di ritardo mentale moderato-severo, anche se sono necessari ulteriori studi per una sua corretta definizione (16). È stato documentato che nei soggetti con SD/AD, rispetto ai soggetti con AD, c’è una maggiore prevalenza di disturbi affettivo-comportamentali, percettivi (allucinazioni), alterazioni del ritmo sonno/veglia, atteggiamento oppositivo (17). Accanto alla valutazione dell’assetto cognitivo del soggetto è importante valutare anche quello non cognitivo. infatti sono spesso gli aspetti comportamentali i primi segni di demenza in soggetti con ritardo mentale, determinanti un declino nelle capacità di adattamento e nella vita sociale dell’individuo.

I sintomi della demenza nella SD possono essere così schematizzati:

- Cognitivi: deficit della memoria per eventi recenti (successivamente anche per eventi passati). Deficit orientamento spaziale. Perdita delle capacità di linguaggio precedentemente apprese, confusione.

- Affettivi: deflessione dell’umore. Insonnia/ipersonnia. Ridotta concentrazione. Aggressività/irritabilità. Ansia/paura. Apatia.

- Comportamentali: aumentata dipendenza. Isolamento sociale. Eccessiva iperattività/fati-cabilità. Mancanza di collaborazione. cambiamenti nella personalità.

- Percettivi: allucinazioni (in tutte le modalità sensoriali).

- Neurologici: disfasia evolvente fino all’afasia. Agnosia. Aprassia. Disturbi nel cammino. Epilessia. Mioclono. incontinenza urinaria. Distonia. perdita dell’autonomia motoria. Segni extrapiramidali.

La diagnosi di demenza in un individuo di norma è fatta usando i criteri ICD-10 (WHO, 1993) (18), DSM-IV-TR (American Psychiatric Association, 2000) (19) o DC-LD (Royal College of Psychiatrists, 2001) (20). Successivamente i soggetti identificati come dementi possono essere valutati secondo i criteri NINCDS-ADRDA (McKhann et al., 1984) (21) per la malattia di Alzheimer, i criteri NINDS-AIREN (Roman et al., 1993) (22) per la demenza vascolare, i criteri per la Demenza a Corpi di Lewy (McKeith et al., 2005) (23) e infine quelli per la Demenza Fronto-temporale (McKhann et al., 2001) (24), allo scopo di identificare il tipo di demenza da cui sono affetti.

Nel caso dei pazienti con ritardo mentale e nel caso specifico dei soggetti con SD il problema della diagnosi di demenza è più complesso. Innanzitutto bisogna ricordare che c’è un tasso di declino cognitivo legato all’invecchiamento precoce cui va incontro la popolazione Down. In particolare il linguaggio, la memoria a breve termine ed il ragionamento non verbale sono generalmente più resistenti mentre si osserva un lieve deterioramento della memoria verbale e a lungo termine per i soggetti con SD di età superiore ai 50 anni, così come della capacità di consolidare in memoria nuove informazioni verbali o apprendere dati visuo-spaziali. È quindi importante differenziare un declino cognitivo età-correlato da una demenza all’esordio.

In generale, individui con ritardo mentale spesso manifestano un decadimento cognitivo con un peggioramento della memoria, difficoltà nel linguaggio sul versante espressivo/ricettivo e disturbi nelle funzioni esecutive. A differenza di quanto avviene nella popolazione normale, escluse cause d’alterazione transitoria od acuta delle capacità cognitive, documentare un coinvolgimento polifunzionale delle funzioni superiori non avvalora di per sé una diagnosi di demenza perché la condizione di ritardo mentale é sottesa dalla parziale maturazione ed acquisizione di più competenze cognitive. Per potere quindi porre diagnosi di declino cognitivo di natura dementigena è pertanto indispensabile riferirsi alla condizione di base del soggetto, acquisendo le informazioni relative ad eventuali valutazioni cognitive eseguite in passato durante il percorso scolastico ed educativo o per scopi d’ordine medico-legale, e su questi dati accertare la presenza di un’involuzione funzionale. inoltre è necessario rivalutare il soggetto nel tempo al fine d’osservare l’andamento del profilo cognitivo.

Le difficoltà principali nella diagnosi di demenza in soggetti con SD sono le seguenti:

1) I test neuropsicologici utilizzati per valutare l’efficienza dei diversi domini cognitivi sono quasi esclusivamente tarati e standardizzati su un campione di riferimento normativo di soggetti con uno sviluppo cognitivo nella norma e strutturati in modo da individuare un cut off di soglia patologica (generalmente coincidente con il 5° percentile) sotto il quale perdono di sensibilità nel cogliere, misurare e classificare sul piano clinico minime variazioni di performance (effetto pavimento).

2) Molti soggetti della popolazione contemporanea di SD adulti e anziani, non sono mai stati formalmente valutati con test cognitivi o scale d’intelligenza per cui non è possibile disporre di dati di baseline specifici del soggetto cui riferirsi per avere indicazioni dell’andamento evolutivo del quadro cognitivo.

3) Diventa pertanto particolarmente delicata e cruciale la raccolta dell’anamnesi recente circa cambiamenti a carico delle competenze comportamentali e cognitive, delle attitudini relazionali e delle capacità di regolazione emotiva che necessariamente, per i limiti d’attendibilità ed esaustività dei self report dei soggetti stessi, dovrebbe essere condotta con le figure di riferimento caregivers. Certamente i limiti d’attendibilità e completezza dei dati raccolti in modo informale in un colloquio clinico o attraverso strumenti semistrutturati, quali scale e questionari, concernono la soggettività dell’osservatore, la sua sensibilità nel cogliere e quantificare i cambiamenti d’interesse. inoltre, nel corso dell’età adulta, possono cambiare i soggetti di riferimento caregivers, prima generalmente rappresentate da genitori e poi da fratelli o parenti prossimi.

Per strutturare la raccolta anamnestica coi caregivers ed ottenere indici metrici correlabili longitudinalmente è opportuno l’utilizzo di scale o questionari.

Per quanto concerne l’approfondimento del grado d’autonomia nella gestione e conduzione delle attività della vita quotidiana, particolarmente interessanti risultano le seguenti scale:

1) RDRS (Rapid Disablity Rating Scale) (25) che esplora in modo sommario sia la necessità d’assistenza per alimentarsi, deambulare, muoversi, lavarsi, vestirsi, andare in bagno, tenersi in ordine, svolgere attività quotidiane quali telefonare, maneggiare denaro sia la presenza di disabilità di comunicazione, udito, vista, la necessità di attenersi a diete specifiche, l’allettamento diurno, problemi d’incontinenza, assunzione di terapie nonché la presenza di problemi particolari quali confusione mentale, non cooperazione o depressione. ogni item prevede quattro punteggi (no, un po’, abbastanza, completamente) e la scala va da 0 = nessuna disabilità a 72 = massima disabilità.

2) DAD (Disability Assessment for Dementia) (26) è invece caratteristica perchè, in relazione alle attività primarie e strumentali della vita quotidiana approfondite in modo analitico, distingue gli aspetti d’iniziativa personale da quelli di pianificazione ed organizzazione preliminare delle attività e dall’effettiva realizzazione della stessa. in questo modo è possibile cogliere modificazioni del grado d’autonomia connesse ad aspetti motivazionali o di problematizzazione circa l’opportunità d’eseguire una certa attività da variabili di natura esecutiva o disprasssica.

Esistono poi scale specifiche, ideate per la valutazione cognitivo-comportamentale del decadimento cognitivo in pazienti con ritardo mentale, da compilare coi caregivers. Tra le più usate ci sono il “Dementia Questionnaire for Mentally Retarded Persons” (DMR; Evenhuis, 1996) (27) e il Dementia Scale for Down’s Syndrome (DSDS; Gedye, 1995) (28).

Nel DMR si pongono 50 domande suddivise in 8 categorie cui il caregiver può rispondere, riferendosi ai comportamenti osservati approssimativamente negli ultimi due mesi, “normalmente si” (0), “qualche volta” (1), “normalmente no” (2). I punteggi alle domande delle categorie “memoria a BT”, “memoria a LT”, “orientamento spaziale e temporale” sono sommati per ottenere un punteggio cognitivo unico (SCS= sum of cognitive scores). Analogamente i punteggi alle voci “linguaggio”, “abilità pratiche”, “umore”, “attività e interessi”, “disturbi del comportamento” sono sommati per ottenere un indice finale delle capacità sociali del soggetto (SOS=sum of social score). Sono stati naturalmente stabiliti differenti cut-off per la diagnosi di demenza in base al grado di ritardo mentale pre-esistente. È importante la somministrazione longitudinale nel tempo di questo test che può spesso dar luogo a falsi positivi in soggetti con rilevanti disturbi del comportamento.

Nel DSDS (Dementia Scale for Down’s Sindrome. Gedye, 1995 (28) invece sono poste 60 domande a due caregivers suddivise ugualmente in 3 categorie: “stadio iniziale”-“stadio intermedio”-“stadio avanzato” di demenza. L’intervistatore parte con le domande relative allo stadio iniziale della demenza, alle quali il caregiver può rispondere: “presente”, “assente”, “non valutabile”, “tipico per quel soggetto”. Se l’intervistato dà una delle ultime tre risposte, queste non vengono calcolate nel punteggio finale. Nell’intervista si inizia con le domande relative alla categoria “stadio iniziale” ma se non viene raggiunto un punteggio finale minimo non si continua con le domande delle altre due categorie e allo stesso modo se un punteggio limite non è raggiunto alle domande relative allo “stadio intermedio” l’intervistatore non prosegue alla categoria “stadio avanzato”. Con questo test, quindi, viene fatta una distinzione tra comportamenti sviluppati e comportamenti pre-esistenti in una persona con ritardo mentale e nel caso in cui si faccia diagnosi di demenza se ne stabilisce lo stadio (iniziale-intermedio-finale). È un test con una buona specificità ma con scarsa sensibilità.

Esistono nella tradizione anglo-americana, alcuni test selezionati per essere direttamente somministrati al paziente con ritardo mentale (29) tra cui il TSI (Test for Severe Impairment), che valuta varie funzioni cognitive, ed il Down’s Syndrome Mental Status Examination (DSMSE), una sorta di MMSE (mini mental status examination) modificato. Per una corretta esecuzione di questi test è comunque necessario un certo grado d’abilità prassica, gnosica

e linguistica e di conseguenza questi strumenti sono utilizzabili per valutare la presenza di demenza in pazienti con ritardo mentale lieve-moderato mentre la loro validità è dubbia per individui con ritardo mentale severo.

Molti dei test sopracitati non sono stati tarati e validati sulla popolazione italiana e pertanto nello scoring bisogna riferirsi ai campioni normativi originali. È però preferibile, qualora disponibili, utilizzare strumenti validati in Italia sia perché costruiti pesando aspetti d’ordine culturale e socio-demografico nella formulazione delle domande e nello scoring sia perché la loro larga diffusione garantisce una maggiore esperienza del clinico nella lettura ed interpretazione del significato dei risultati.

una valutazione neuropsicologica, oltre a prevedere una raccolta anamnestica esaustiva ed indicazioni sul funzionamento adattivo, dovrebbe indagare l’efficienza funzionale di tutti i domini cognitivi.

Come anticipato è suggeribile disporre di un indice dell’efficienza cognitiva globale di base, quale il QI misurato con le scale di Wechesler (WISC, WAIS), meglio se misurato nella prima età adulta tra i 18 e i 25 anni. In assenza di questi dati premorbosi, qualora sia presente un sovrapposto processo di decadimento mentale, i risultati conseguiti alle scale intellettive certamente risentono della parziale perdita di competenze preesistenti e non sono pertanto da considerarsi una misura del QI di base. La scelta di somministrarle comunque si fonda sulla struttura dei compiti delle scale che le rendono un valido strumento di valutazione analitica delle capacità verbali e non verbali e d’osservazione delle aree di risorsa o vulnerabilità cognitiva.

L’indagine delle varie operazioni cognitive viene eseguita attraverso test neuropsicologici specifici; la scelta di quali prove proporre deve essere orientata secondo i criteri di semplicità delle consegne, relativa brevità del tempo d’esecuzione ed in modo da limitare l’interferenza di difficoltà linguistiche recettive ed espressive.

Le capacità linguistiche espressive vengono valutate sia attraverso l’osservazione dell’eloquio spontaneo, negli aspetti legati all’articolazione e prosodia, fluidità verbale, appropria-tezza lessicale, costruzione sintattico-grammaticale e adeguatezza dei contenuti rispetto al contesto e al piano della conversazione, sia attraverso compiti di ricerca lessicale secondo categorie semantiche o in compiti di denominazione. La componente linguistica recettiva viene esaminata sia informalmente nell’interazione linguistica sia con il Token Test che richiede la manipolazione di alcuni gettoni, (di due forme, cinque colori e due grandezze) secondo istruzioni di variabile complessità per lunghezza e contenuto. per quanto concerne le risorse attentive sono da indagare l’eventuale presenza di rallentamento psico e/o motorio d’inerzia cognitiva, limiti alla velocità esecutiva, la capacità del paziente di mantenersi orientato al compito e di inibire risposte automatiche attivate da stimoli ambientali o endogeni non pertinenti, di rimanere concentrato per un tempo protratto (attenzione sostenuta) e di cogliere in modo rapido ed accurato gli stimoli salienti di una condizione stimolo tra altri irrilevanti (attenzione selettiva). Il test più comunemente utilizzato ad indice dell’efficienza attentiva selettiva e della velocità esecutiva sono le “Matrici numeriche” che, premettendo capacità di discriminazione dei numeri e normale acuità visiva, prevedono la siglatura in un tempo massimo di alcuni stimoli numerici target posti tra altri distrattori. per quanto concerne la componente mnestica sarebbe auspicabile misurare sia la capacità del magazzino mnestico a breve termine (test Span di cifre), indice dell’efficienza della working memory generalmente molto limitata nel ritardo mentale, sia la possibilità di recuperare informazioni dalla memoria a lungo termine (retrograda) di tipo semantico, episodico ed autobiografico sia di apprendere e recuperare nuove informazioni (memoria anterograda). Il test più indicato, in pazienti con ritardo mentale, per la valutazione della memoria a lungo termine è il “Test di Memoria Comportamentale di Rivermead”, perché oltre a stimare le risorse di memorizzazione e rievocazione di materiale verbale spesso limitate dalle disabilità linguistiche di base, prevede anche l’approfondimento delle capacità d’apprendimenti di tipo non dichiarativo e comportamentale; infatti, oltre alle domande relative all’orientamento spazio-temporale e personale, alla richiesta di semplici informazioni culturali (es: nome presidente della Repubblica) e all’apprendimento di un breve racconto rievocato sia immediatamente dopo la lettura sia a distanza di minuti, si osserva la capacità di memorizzare e ricordare a distanza di tempo il nome e cognome di una persona mostrata in una fotografia, di immagazzinare e recuperare secondo un processo di riconoscimento oggetti o volti nuovi, di apprendere sequenze comportamentali, di ricordare al momento opportuno di fare una certa attività (come chiedere l’appuntamento quando suona la sveglia).

Le abilità visuo-costruttive sono generalmente piuttosto povere nei pazienti con sD; una prova utilizzabile per misurarle è il “test di copia di elementi geometrici con o senza elementi di programmazione” perché permette di distinguere nell’esecuzione grafica della copia di semplici modelli geometrici difficoltà legate alla pianificazione, all’esecuzione e alla coordinazione visuo-motoria.

in ultimo, l’operatività del dominio logico-astratto nelle sue funzioni d’astrazione, categorizzazione, anticipazione, inferenza è indagabile con le “Matrici progressive di Raven forma colore” appositamente ideate per limitare la rilevanza di variabili legate alle competenze verbali o conoscenze acquisite in modo formale nella misura delle facoltà logiche.

Quando comunque ci si orienta verso un sospetto di demenza in un soggetto con SD è di fondamentale importanza la diagnosi differenziale tra un’ampia gamma di condizioni patologiche che possono determinare uno scadimento delle performance cognitive, tra le quali le principali ricordiamo l’ipotiroidismo, i deficit sensoriali, la depressione o altre patologie psichiatriche, l’apnea ostruttiva, il decadimento cognitivo iatrogeno (es. da anticolinergici), le epatopatie croniche o altre patologie internistiche determinanti squilibrio metabolico, i quadri carenziali (ad es. deficit di folati iatrogeno da antiepilettici), le infezioni o l’abuso di sostanze.

oltre quindi alla valutazione clinica è importante seguire anche un iter diagnostico strumentale adeguato eseguendo esami emato-urinari di routine (fra cui screening della funzionalità tiroidea, epatica, renale, dosaggio vitamina B12 e folati), ECG, RX torace, visita oculistica,visita ORL, TC/RMN encefalo, PET/SPECT cerebrale ed altre tecniche di neuroimaging (fMRI,VBM).

Nella fase pre-clinica della demenza in soggetti con SD è stata riscontrata attraverso immagini RMN una progressiva riduzione volumetrica del lobo temporale mediale, in particolare di amigdala e ippocampo, con l’avanzare dell’età, che si correlava positivamente alla misurazione clinica della funzione mnesica (30). Di contro Pinter et al (2001) (31) hanno messo a confronto un gruppo di bambini con SD con un gruppo di controllo, usando una RMN encefalo ad alta risoluzione con riscontro di un volume ippocampale significativamente più ridotto nei Down rispetto ai controlli, suggerendo quindi che la riduzione di volume ippocampale osservata nei soggetti Down adulti sia da imputare più a precoci differenze di sviluppo che a processi neurodegenerativi.

In un recente studio Haier et al. (2003) (32) hanno sottoposto a PET cerebrale 44 soggetti, di cui 17 con SD, 10 con AD, e 24 controlli sani, durante l’esecuzione di un compito cognitivo (CPT=continuous performance test of attention). Nei soggetti con SD e in quelli con AD si registrava un ipometabolismo (GMR=glucose metabolic rate) nel cingolo posteriore rispetto ai controlli. Confrontati con i controlli, i soggetti con SD mostravano invece un ipermetabolismo nella corteccia entorinale/temporale inferiore, le stesse aree nelle quali i soggetti con AD mostravano un ipometabolismo rispetto ai controlli. il dato era confermato nel follow-up ad un anno. Gli autori ipotizzano che l’ipermetabolismo nella corteccia ento-rinale/temporale inferiore dei soggetti con SD possa esprimere un meccanismo di compenso che agisce nella fase pre-clinica della demenza. Con l’avanzare poi del processo neurodegenerativo tale compenso non sarebbe più efficace e si inizierebbero quindi a manifestare i segni clinici di demenza.

Comunque anche in ambito neuroradiologico è importante tener presente che negli individui con SD si riscontrano spesso atrofia cerebrale, calcificazioni dei gangli della base e lesioni aspecifiche della sostanza bianca cerebrale (WML= white matter lesions), markers dell’invecchiamento precoce che non sono però necessariamente associati all’insorgenza di demenza (33).

Circa la terapia per la demenza in soggetti con SD l’utilizzo degli inibitori delle acetil-colinesterasi rimane controverso. Infatti ci sono state evidenze dell’utilità di questi farmaci nei pazienti con SD (34), ma anche della loro scarsa tollerabilità (35). Nella categoria degli anticolinesterasici, il Donepezil è quello maggiormente testato, partendo da un dosaggio di 5 mg per 4-6 settimane con successivo aumento a 10 mg/die. Come nei soggetti non Down affetti da AD anche nei pazienti con SD e AD vi sono controindicazioni all’utilizzo degli anti-colinesterasici, in particolare: anomalie della conduzione cardiaca, ulcera peptica, ritenzione urinaria o patologia ostruttiva delle vie urinarie, BPCO, insufficienza epatica, insufficienza renale, occlusione gastro-intestinale.

Molteplici sono le possibili interazioni farmacologiche tra l’anticolinesterasico e altri farmaci, in particolare va posta attenzione a quelle con antipsicotici, antidepressivi ed anticolinergici.

Accanto all’intervento di tipo farmacologico questa tipologia di pazienti si giova molto anche di interventi psicosociali: un ambiente sano e stabile è di grande importanza. È stato infatti dimostrato che i fattori ambientali hanno un forte impatto sulle funzioni cognitive (36). Attenzione e aiuto vanno dati anche ai familiari e in senso più ampio ai caregivers, troppo spesso lasciati soli nella gestione dei pazienti.

Tra le prospettive terapeutiche future per l’AD, ricordiamo l’impiego di farmaci antinfiammatori, estrogeni e inibitori delle secretasi (che preverrebbero la deposizione di P-ami-

Ioide). L’utilizzo aggiuntivo in terapia per forme di AD severo della Memantina potrebbe essere esteso anche a pazienti dementi con SD, anche se sono ancora scarse le evidenze di una reale utilità del farmaco nel rallentare la progressione della malattia.

Sindrome di down ed epilessia

I soggetti con sD mostrano una maggiore incidenza di manifestazioni critiche, febbrili e non, rispetto alla popolazione generale: le crisi epilettiche possono considerarsi l’epife-nomeno di anomalie neurologiche, sia anatomiche che funzionali, solitamente osservate in questi pazienti. Per spiegare l’associazione tra SD e epilessia sono stati condotti numerosi studi, innanzitutto quelli anatomo-patologici su cervelli di soggetti con SD con riscontro di disgenesie corticali con ridotta presenza di interneuroni GABAergici in giri critici della neocorteccia (37), anomalie morfologiche delle spine dendritiche e loro bassa densità (38), anomalie intrinseche della membrana neuronale. Esaminando i DRG (dorsal root ganglia) di feti con SD è stata dimostrata una soglia di attivazione più bassa per il potenziale d’azione e un tempo di propagazione più veloce verosimilmente per anomalie nella cinetica di attivazione dei canali del Na (39) o alterazioni neurotrasmettitoriali (40). Un altro meccanismo che si ipotizza contribuisca alla genesi dell’epilessia nella SD è lo “stress ossidativo”. Infatti sul cromosoma 21 oltre al gene EPM1, responsabile dell’epilessia mioclonica di Unverricht-Lumborg, è stato mappato anche il gene che codifica per la Superossido-dismutasi 1 (SODI) che nella SD viene espresso fino al 50% in più (41). Questa aumentata espressione dell’enzima determina una riduzione del superossido ma un aumento del perossido d’idrogeno. Questa condizione primaria potrebbe determinare, come meccanismo di adattamento secondario, un’alterazione dei livelli di NO (nitrossido), perossinitrato e NOS (nitrossido sintetasi) che si rifletterebbe in un’alterazione degli enzimi di idrossilazione aromatica e quindi dei neurotrasmettitori a struttura aromatica. Ancora, l’aumento del perossido d’idrogeno comporta un’aumentata attività della glutatione perossidasi e richiesta di selenio (che funge da co-fattore dell’enzima) e quindi rapido esaurimento di entrambi questi fattori che svolgono un’importanza azione protettiva antiossidante (42).

La prevalenza dell’epilessia aumenta con l’avanzare dell’età, raggiungendo il 46% nei soggetti con più di 50 anni. in generale, circa l’8% dei pazienti con SD ha manifestazioni epilettiche, che nel 47% di questi soggetti si manifesta con crisi parziali, nel 32% con spasmi infantili e nel 21% con crisi tonico-cloniche generalizzate. circa l’esordio delle crisi si è osservato un andamento bimodale: il 40% dei pazienti inizia ad avere crisi prima di un anno d’età e un altro 40% nella terza decade. Nel gruppo più giovane si osservano spasmi infantili e crisi tonico-cloniche con mioclono mentre nel gruppo di soggetti più anziani sono più frequenti crisi parziali semplici o complesse cosi’ come quelle tonico-cloniche (43).

Descrizioni di epilessia ad esordio tardivo (LOMEDS=late onset mioclonic epilepsy in SD) sono rare ma dato che l’aspettativa di vita dei soggetti con SD è marcatamente aumentata, le LOMEDS potrebbero essere più frequenti di quanto finora documentato e dovrebbero entrare in diagnosi differenziale con l’epilessia mioclonica ad esordio nell’età adulta.

La presentazione clinica è caratterizzata da scosse miocloniche al risveglio e crisi tonico-cloniche generalizzate, con complessi punta-onda generalizzati all’EEG. Come l’AD familiare e l’epilessia mioclonica progressiva (tipo Unverricht-Lundborg) sono entrambe correlate al cromosoma 21, cosi’ la LOMEDS potrebbe rappresentare una diversa forma di epilessia mioclonica progressiva correlata al cromosoma 21 (44).

Rispetto agli spasmi infantili sintomatici che nella popolazione generale hanno una cattiva prognosi, questa è migliore nei pazienti con SD, con buon controllo farmacologico delle crisi (46). Tuttavia nei pazienti con SD c’è una significativa correlazione tra ritardo nel trattamento e ritardo nella cessazione degli spasmi infantili, sviluppo intellettivo e manifestazioni autistiche (47). Solitamente all’EEG si riscontra ipsaritmia (48). Non c’è correlazione tra il quadro elettroencefalografico iniziale e la risposta al trattamento o il controllo delle crisi a lungo termine, oppure tra il tipo di farmaco antiepilettico e la remissione clinica, la normalizzazione dell’EEG o il controllo a lungo termine delle crisi (49). Si ritiene che i disturbi del comportamento riscontrati nei bambini SD con epilessia siano associati a più fattori: crisicorrelati, cognitivi, di sviluppo e psicosociali (50).

I pz con SD non dementi e i soggetti con AD mostrano importanti anomalie elettroencefalografiche probabilmente dovute alle modificazioni istopatologiche dell’AD. Nei soggetti con SD si osserva un aumento della potenza assoluta in tutte le bande dell’EEG, indipendentemente dalla funzione cognitiva. Nello spettro di potenza dell’EEG a riposo, c’è un aumento cognitivo-correlato della potenza compresa fra 4.5 e 8.8 Hz, indicativo di un rallentamento alfa, come nei pazienti con AD. Nei pazienti SD si osserva inoltre una ridotta responsività allo stimolo fotico nell’EEG dopo stimolazione luminosa intermittente, come nei pazienti con AD (51).

Alcuni studi hanno dimostrato che c’è un declino età-correlato delle funzioni corticali e un rallentamento dell’EEG nei pazienti con SD dai 20 ai 60 anni. Il rallentamento del-l’EEG, in particolare la riduzione del picco di frequenza, è significativamente correlato al punteggio al MMSE. Un rallentamento del ritmo occipitale dominante si correla all’AD nei pazienti con SD e la frequenza dell’attività dominante occipitale si riduce all’esordio del deterioramento cognitivo (52). Tuttavia, alcuni autori hanno trovato che il ritmo alfa nei soggetti con SD più anziani è accompagnato ad un aumento dell’attività lenta a 6-8 Hz ma non si associa ad un deterioramento delle attività della vita quotidiana (53). Nel fol-low-up dei pazienti con SD, benché il rallentamento dell’EEG a 8 Hz prenda piede negli anni nei singoli individui, è stato comunque notato un precoce e distintivo decremento di frequenza. È discusso se questo primo step di riduzione della frequenza sia da imputarsi all’invecchiamento precoce o al declino cognitivo cerebrale legato alle alterazioni istopato-logiche dell’AD (54).

Altre complicanze neurologiche associate alla Sindrome di down
Mielopatia cervicale da instabilità atlanto assiale

L’instabilità o sublussazione atlanto-assiale (AAI= atlanto-axial instability) si osserva nel 10-30% dei pazienti con SD e consiste in un’aumentata mobilità dell’articolazione tra la I e la II vertebra cervicale (55). Una delle cause è verosimilmente un deficit del collagene con conseguente aumento della lassità dei legamenti che dovrebbero garantire la stabilità dell’articolazione C1-C2, oppure anormalità ossee della vertebra C1 (es. arco vertebrale posteriore ipoplasico) e C2 (in particolare del dente dell’epistrofeo) o la concomitanza di entrambi (56). Talora si riscontra la presenza di un ossicino accessorio nell’intervallo atlanto-assiale che aumenta ulteriormente l’instabilità articolare. Esso deriva probabilmente da una frattura del dente dell’epistrofeo, non mantenuto adeguatamente in sede dalle strutture legamentose. L’AAi è solitamente asintomatica e identificata incidentalmente con le proiezioni in latero-laterale dell’ RX rachide cervicale: l’abnorme mobilità è legata ad uno spazio eccessivamente largo (>3 mm) tra il dente dell’epistrofeo e l’arco anteriore dell’atlante. Nello 0,4-4.3% dei pazienti con SD l’AAI è sintomatica e si associa a mielopatia (56). Solitamente l’effetto compressivo determinato dall’AAi determina un corteo sintomatologico caratterizzato da astenia, difficoltà/anomalie nella deambulazione, dolore e ridotta mobilità cervicale, cefalea, incoordinazione motoria, iperreflessia, risposta in estensione alla stimolazione cutaneo-plan-tare, segni di interessamento del I° motoneurone, segni e sintomi cordonali posteriori. Spesso il quadro clinico resta stabile per mesi ma ha comunque un andamento ingravescente nel tempo e nei casi più gravi può causare paraplegia, tetraplegia o la morte se la compressione coinvolge anche la parte inferiore del tronco-encefalo (bulbo) (57).

Dunque è importante, soprattutto negli individui Down che si apprestano ad intraprendere un’attività sportiva, eseguire accertamenti radiologici per escludere un’eventuale AAI. Se viene riscontrata in un soggetto asintomatico, questi deve essere sottoposto negli anni ad un follow-up radiologico ed a restrizioni circa la tipologia di sport che intende intraprendere. Nel caso in cui si passi ad una condizione AAI sintomatica l’intervento chirurgico è d’obbligo.

Stroke e sindrome di Down

L’angiopatia amiloide cerebrale (CAA=cerebral amyloid angiopathy) è una condizione caratterizzata dalla deposizione di sostanza amiloide nella parete delle arterie cerebrali di piccolo o medio-calibro, soprattutto a livello corticale o leptomeningeo. Tale alterazione ana-tomo-patologica si associa comunemente all’invecchiamento, all’AD, alla SD, alla Angiopatia Amiloidea Cerebrale Sporadica e alle forme familiari (Icelandic type e Deutch type) ed è una causa frequente di emorragie lobari recidivanti benché si associ anche a infarti ischemici ed a demenza multinfartuale. Tuttavia l’associazione tra CAA e le conseguenze nella SD è ancora poco studiata (58).

D’altra parte è stata notata un’associazione tra la Moyamoya (patologia quasi esclusiva del Giappone dove ha una prevalenza stimata intorno a 50.7/100.000) (59) e la SD. La Moyamoya è una patologia cerebrovascolare occlusiva cronica caratterizzata da una stenosi progressiva dell’arteria carotide interna nel tratto sopraclinoideo con secondario sviluppo di una rete di sottili vasi collaterali delle arterie perforanti e dei vasi piali alla base del cervello, che determina una quadro neuroradiologico a “nuvola di fumo” (in giapponese moyamoya appunto). Tali vasi sono soggetti con facilità a rottura o occlusione, con conseguenti emorragie o ischemie cerebrali, rispettivamente. La malattia ha un andamento bimodale: c’è un picco nei soggetti ≤ 10 anni dove prevalgono gli infarti ischemici e un altro nella quarta decade con prevalenti manifestazioni emorragiche. Sono stati descritti almeno venti casi di Moyamoya in soggetti con SD (60), nei quali il quadro clinico e radiologico era sovrapponibile a quello osservato in soggetti senza SD. Si è stimato che l’incidenza di tale patologia tra i bambini con SD sia più alta rispetto alla popolazione pediatrica generale (61). Sul cromosoma 21 è stato identificato il gene che codifica per la catena a del Collagene di tipo VI, che si ritrova nell’intima delle grandi arterie, per cui un’abnorme produzione di questo tipo di collagene potrebbe predisporre alle alterazioni vasali tipiche della Moyamoya (62).

Sindrome delle apnee morfeiche ostruttive e sindrome di Down

La sindrome delle apnee morfeiche ostruttive (OSAS=obstructive sleep apnea syndrome) è una condizione clinica caratterizzata da apnea notturna parziale o completa, ipoventilazione e desaturazione arteriosa, spesso sottostimata nonostante sia un fattore di morbilità nella popolazione infantile, in quanto è stata dimostrata la sua implicazione nell’eccessiva sonnolenza diurna, nei disturbi del comportamento, nelle scarse performance scolastiche e nel ritardo di sviluppo. Nell’OSAS l’ipossiemia e l’acidosi respiratoria croniche e intermittenti che si osservano nel corso del sonno determinano vasocostrizione e quindi ipertensione polmonare, cui può conseguire uno scompenso cardiaco e la morte. I bambini con SD hanno molti fattori predisponenti all’OSAS: ipolasia mandibolare o altre malformazioni craniofacciali, macroglossia, vie aeree superficiali ristrette con ipertrofia tonsillare e adenoidea, aumentate secrezioni, maggiore incidenza di anormalità delle basse vie respiratorie, obesità e ipotonia generalizzata con conseguente collasso delle vie aeree durante l’inspirazione. In uno studio di polisonnografia condotto nel corso del sonnellino pomeridiano (nap polysomnography) su una popolazione di 53 bambini con SD (età media 7.4 ± 1.2 anni) il 77% mostrava un polisonnogramma alterato; il 45% aveva un’ OSAS, il 4% un’apnea centrale e il 6% un’apnea mista; il 66% ipoventilava e il 32% desaturava (SpO2<90%) (63). Inoltre da questa popolazione 16 bambini sono stati sottoposti a polisonnografia notturna (overnight polysomnography) e nel 100% il polisonnogramma era alterato, con riscontro di OSAS nel 63%, ipoventilazione nell’81% e desaturazione nel 56%. A seguito dell’intervento di tonsillectomia e adenoidectomia condotto su 8 bambini il quadro polisonnografico migliorava in tutti ma solo in 3 si normalizzava. Si può ragionevolmente pensare che la frammentazione del sonno e l’ipossiemia che si osservano nell’OSAS contribuiscano negativamente ai disturbi del comportamento e di sviluppo dei bambini con SD ma solo il 32% della popolazione oggetto di questo studio manifestava qualcuno dei sintomi sopra elencati e si era rivolta al medico curante.

Molti soggetti con SD soffrono di ipertensione polmonare combinata o meno a malformazioni cardiache e molto dibattuta è l’eziologia di tale associazione. Tra i meccanismi proposti vi è un’anormale morfologia dei capillari e l’ipoplasia della arteria polmonare ma è possibile che l’OSAS in alcuni soggetti possa contribuire in maniera significativa: in tal caso l’ipertensione polmonare potrebbe essere parzialmente reversibile risolvendo il problema ostruttivo delle vie aeree. Ciò è stato dimostrato sia da Loughlin et al. (64) che da Kasian et al. (65) che hanno intubato dei soggetti con SD durante cateterizzazione cardiaca e hanno dimostrato una transitoria risoluzione dell’ipertensione polmonare. Perciò in soggetti con ipertensione polmonare non del tutto giustificata da una patologia cardiaca concomitante va sempre indagata l’eventuale presenza di un’OSAS cosi’ come nel caso in cui si osservi una maggiore sonnolenza, peggioramento dei disturbi cognitivo-comportamentali o altri sintomi suggestivi.

Per concludere la nostra trattazione, citiamo alcuni disturbi del movimento che sono stati studiati nella popolazione Down, quali le discinesie oro-facciali e la sindrome di Gilles De la Tourette (TS=Tourette’s Syndrome). In particolare Dinan e Golden (66) hanno osservato la presenza delle prime in 38 su 54 soggetti con un età tra i 30-60 anni mai sottoposti a terapia con neurolettici, la cui severità aumentava con l’avanzare dell’età. Circa la comorbilità tra SD e sindrome di Gilles De la Tourette, uno dei primi casi è stato riportato da Sacks (1982) (67) e in un recente studio condotto da Kerbeshian e Burd è stata riscontrata un’associazione tra SD e TS nel 2% dei pazienti con TS (68). In contrasto, Myers e Puschel (69) hanno valutato 452 soggetti con SD, riscontrando una TS solo in 5 (1.2%) ed essendo l’incidenza della TS nella popolazione generale compresa tra 0.03% e 1.6% gli autori non ritengono ci sia una significativa associazione tra le due sindromi. Sono poi stati riportati case-report di soggetti con SD affetti da malattie neuromuscolari, come la distrofia muscolare di Becker (70) e di Duchenne (71-72) o la distrofia miotonica (73), ma non è stata trovata alcuna specifica associazione tra queste patologie e la SD.


Ringraziamenti

Si ringrazia il Dr. Massimo Franceschi (Neurologia, Multimedica, Castellanza (VA) per la collaborazione prestata nella stesura del capitolo.

BIBLIOGRAFIA

1. Lai F., Williams R.S., A prospective study of Alzheimer disease in Down syndrome, Arch. Neurol, 1989, 46:849-53.

2. Tyrrell J., Cosgrave M., McCarron M., et al., Dementia in people with Down’s syndrome, Int. J Geriatr Psychiatry, 2001, 16: 1168-1174.

3. Temple V., Jozsvai E., Konstantareas M.M. et al., Alzheimer dementia in Down’s syndrome: the relevance of cognitive ability, J. Itellect Disabil Res., 2001, 45: 47-55.

4. Selkoe D.J., Translating cell biology into therapeutic advances in Alzheimer’s disease, Nature 399 (6738 Suppl), 1999: A23-A31.

5. Motonaga K., Itoh M., Becker L.E. et al., Elevated expression of beta-site amyloid precursor

protein cleaving enzyme 2 in brains of patients with Down syndrome, Neurosci Lett., 2002 Jun 21;326(1):64-66.

6. Riemenschneider M., Klopp N., Xiang W. et al., Prion protein codon 129 polymorphism and risk of Alzheimer disease, Neurology, 2004, Jul 27;63(2):364-366.

7. Del Bo R., Comi G.P., Giorda R. et al., The 129 codon polymorphism of the prion protein gene influences earlier cognitive performance in Down syndrome subjects, J Neurol., 2003, Jun;250(6):688-692.

8. Hirayama A., Horikoshi Y., Maeda M. et al., Characteristic developmental expression of amyloid beta40, 42 and 43 in patients with Down syndrome, Brain Dev., 2003 Apr; 25(3):180-185.

9. Mehta P.D., Mehta S.P., Fedor B. et al., Plasma amyloid beta protein 1-42 levels are increa-sed in old Down Syndrome but not in young Down Syndrome, Neurosci Lett., 2003, May 22;342(3):155-158.

10. Cataldo A.M., Peterhoff C.M., Troncoso J.C. et al., Endocytic pathway abnormalities precede amyloid beta deposition in sporadic Alzheimer’s disease and Down syndrome: differential effects of APOE genotype andpresenilin mutations, Am J Pathol., 2000, Jul;157(1):277-286.

11. Hyman B.T., West H.L., Rebeck G.W. et al., Neuropathological changes in Down’s syndrome hippocampal formation. Effect of age and apolipoprotein E genotype, Arch Neurol., 1995, Apr;52(4):373-378.

12. Schupf N., Sergievsky G.H., Geneticandhost factors for dementia in Downs syndrome, Br J Psychiatry., 2002, May;180:405-410.

13. Schupf N., Phang D., Bindu N. Patel et al., Onset of dementia is associated with age at menopause in women with Down syndrome, Ann. Neurol., 2003, 54: 433-438.

14. Reiss, S., Levitan, G. W., Szyszko, J., Emotional disturbance and mental retardation: diagno-stic overshadowing, Am J Ment Defic., 1982, 86: 567-574.

15. Cosgrave M. P., Tyrrell J., McCarron M., et al., A five year follow-up study of dementia in persons with Down’s syndrome: early symptoms andpatterns of deterioration, Irish Journal of Psychological Medicine, 2000, 17: 5-11.

16. Holland A. J., Hon J., Huppert A., et al., Incidence and course of dementia in people with Down’s syndrome: findings from a population-based study, J Intellect Disabil Res., 2000, 44: 138-146.

17. Cooper S. A., Prasher V. P., Maladaptive behaviours and symptoms of dementia in adults with Down’s syndrome compared with adults with intellectual disabilities of other aetiologies, J Intellect Disabil Res., 1998, 42: 293-300.

18. World Health Organization (WHO). ICD-10. Classification of Mental and Behavioural Disorders: Diagnostic Criteria for Research. 1993-WHO.

19. American Psychiatric Association. Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders, (4th edn, revised) (DSM-IV-TR), 2000. APA.

20. Royal College of Psychiatrists. DC-LD: Diagnostic criteria for Psichiatric Disorders for Use with Adults with Learning Disabilities/Mental Retardation. 2001. Royal College of Psychiatrists.

21. McKhann G., Drachman D., Folstein M. et al., Clinical diagnosis of Alzheimer’s disease: report of the NINCDS-ADRDA Work Group under the auspices of Department of Health and Human Services Task Force on Alzheimer’s Disease, Neurology., 1984 Jul;34(7):939-944

22. Roman G.C., Tatemichi T.K., Erkinjuntti T. et al., Vascular dementia: diagnostic criteria for research studies, Report of the NINDS-AIREN International Workshop. Neurology., 1993, Feb;43(2):250-260.

23. McKeith I.G., Dickson D.W., Lowe J. et al., Diagnosis and management of dementia with Lewy bodies: third report of the DLB Consortium, Neurologi, 2005, Dec 27;65(12):1863-1872.

24. McKhann G.M., Albert M.S., Grossman M. et al., Clinical and pathological diagnosis of frontotemporal dementia:report of the Work Group on Frontotemporal Dementia and Pick’s Disease, Arch Neurol., 2001, Nov;58(11):1803-1809.

25. Linn M.W., Rapid disability rating scale, Psychopharmacol.Bull., 1988, 24 (4): 799-80.

26. Gelinas I.,Gauthier L., Mc Intyre M., Devolopment of functional measure for persons with Alzheimer’s disease: the disability assessment for dementia, Am J Occup Ther., 1999,53, 471481.

27. Evenhuis H.M., Further evaluation of the Dementia Questionnaire for Persons with Mental Retardation (DMR), J Intellect Disabil Res.,1996, Aug;40 ( Pt 4):369-373.

28. Gedye A., Dementia Scale for Down Syndrome, Manual., 1995, Gedye Research and Consulting, Vancouver.

29. Aylward E. H., Burt D. B., Thorpe L. U., Dalton A. J., Diagnosis of dementia in individuals with intellectual disability, J Intellect Disabil Res., 1997,41: 152-164.

30. Krasuski J.S., Alexander G.E., Horwitz B. et al., Relation of medial temporal lobe volumes to age and memory function in nondemented adults with Down’s syndrome: implications for the prodromalphase of Alzheimer’s disease, Am J Psychiatry., 2002, Jan;159(1):74-81.

31. Pinter J.D., Eliez S., Schmitt J.E. et al., Neuroanatomy of Down’s syndrome: a high-resolution MRIstud., Am J Psychiatry., 2001, Oct;158(10):1659-1665.

32. Haier R.J., Alkire M.T. White N.S. et al., Temporal cortex hypermetabolism in Down syndrome prior to the onset of dementi., Neurology 2003, 61:1673-1679.

33. Gerald M. Roth, Belinda Sun, Fred S. Greensite et al., Premature Aging in Persons with Down Syndrome: MR Findings, AJNR Am J Neuroradiol, August 1996, 17:1283-1289.

34. Kishnani PS, Spiridigliozzi GA, Heller JH et al. Donepezil for Down’s syndrome. Am J Psychiatry. 2001 Jan;158(1):143.

35. Hemingway-Eltomey, J. M. & Lerner, A. J. Adverse effects of donepezil in treating Alzheimer’s disease associated with Down’s syndrome. Am J Psychiatry 1999; 15: 1470.

36. Temple, V., Jozsvai, E., Konstantareas, M. M., et al. Alzheimer dementia in Down’s syndrome: the relevance of cognitive ability. J Intellect Disabil Res. 2001,45: 47-55.

37. Ross M.H., Galaburda A.M., Kemper T.L., Down’s syndrome: is there a decreasedpopulation of neurons?, Neurology, 1984, 34:909-916.

38. Becker L.E., Armstrong D.L., Chan F., Dendritic atrophy in children with Down’s syndrome, Ann Neurol., 1986, 20:520-526.

39. Caviedes P., Auk B., Rapoport S.I., The role of altered sodium currents in action potential abnormalities of cultured dorsal root ganglion neurons from trisomy 21 (Down syndrome) human fetuses, Brain Res., 1990, 510:229-236.

40. Stafstrom C.E., Epilepsy in Down syndrome: clinical aspects and possible mechanisms, Am J Ment Retard., 1993, 98(suppl): 12-26.

41. Anneren G., Edman B., Down syndrome-a gene dosage disease caused by trisomy of genes within a small segment of the long arm of chromosome 21, exemplified by the study of the effects from the superoxide type-1 (SOD-1) gene, AMPIS 1993, Suppl 40: 71-79.

42. Antila E., Norberg U.R., Syvaoja E.L., et al., Selenium therapy in Down syndrome: a theory and clinical trial, Antioxidants in Therapy and Preventative Medicine. New York: Plenum Press, 1990,183-186.

43. Pueschel S.M., Louis S., McKnight P., Seizure disorders in Down syndrome, Arch Neurol., 1991, Mar;48(3):318-320.

44. Moller J.C., Hamer H.M., Oertel W.H. et al., Late-onset myoclonic epilepsy in Down’s syndrome (LOMEDS), 2002, Apr;11 Suppl A:303-3 05.

45. Puri B.K., Ho K.W., Singh I., Age of seizure onset in adults with Down’s syndrome, Int J Clin Pract., 2001, Sep;55(7):442-444.

46. Stafstrom C.E., Konkol R.J., Infantile spasms in children with Down syndrome, Dev Med Child Neurol., 1994, Jul;36(7):576-585.

47. Eisermann M.M., DeLaRaillère A., Dellatolas G. et al., Infantile spasms in Down syndrome-effects of delayed anticonvulsive treatmen,. Epilepsy Res., 2003, Jun-Jul;55(1-2):21-27.

48. Escofet C., Póo P„ Valbuena O. et al., Infantile spasms in children with Down’s syndrome, Rev Neurol., 1995, Mar-Apr;23(120):315-317.

49. Goldberg-Stern H., Strawsburg R.H., Patterson B. et al., Seizure frequency andcharacteristics in children with Down syndrome, Brain Dev., 2001, Oct;23(6):375-378.

50. Caplan R., Austin J.K., Behavioral aspects of epilepsy in children with mental retardation, Ment Retard Dev Disabil Res Rev., 2000, 6(4):293-299.

51. Politoff A.L., Stadter R.P., Monson N. et al., Cognition-related EEG abnormalities in nonde-mented Down syndrome subjects, Dementia., 1996, Mar-Apr;7(2):69-75.

52. Visser F.E., Kuilman M., Oosting J. et al., Use of electroencephalography to detect Alzheimer’s disease in Down’s syndrome, Acta Neurol Scand., 1996, Aug; 94(2):97-103.

53. Ono Y., EEG changes with aging in adults with Down syndrome, Jpn J Psychiatry Neurol., 1993, Mar;47(1):75-84.

54. Katada A, Hasegawa S, Ohira D et al., On chronological changes in the basic EEG rhythm in persons with Down syndrome - with special reference to slowing of alpha waves, Brain Dev., 2000, Jun;22(4):224-229.

55. Pueschel S.M., Scola F.H.., Atlantoaxial instability in individuals with Down syndrome: epi-demiologic, radiographic, and clinical studies, Pediatrics., 1987, Oct;80(4):555-60.

56. American Academy of Pediatrics, Committee on Sports Medicine. Atlantoaxial instability in Down syndrome, Pediatrics, 1984, 74:152-154.

57. Msall M.E., Reese M.E., DiGaudio K., et al., Symptomatic atlantoaxial instability associated with medicaland rehabilitativeprocedures in children with Down syndrome, Pediatrics., 1990, 85:447-449.

58. Romero López J., Rivas Infante E., Macineiras Montero J.L. et al., Cerebral amyloid angiopathy, recurrent intracerebral haemorrhages and Down’s syndrome, Neurologia., 2006, Dec;21(10):729-732.

59. Ikeda K., Iwasaki Y., Kashihara H. et al., Adult moyamoya disease in the asymptomatic Japanesepopulation, J Clin Neurosci., 2006, Apr;13(3):334-8. Epub 2006.

60. Steven C., Cramer M.D. Richard L., Robertson et al., Moyamoya and Down Syndrome, Clinical and Radiological Features. Stroke., 1996, 27:2131-2135.

61. Fukushima Y., Kondo Y., Kuroki Y. et al., Are Down syndrome patients predisposed to moyamoya disease?, Eur J Pediatr., 1986, 144:516-517.

62. Korenberg J.R., Toward a molecular understanding of Down syndrome, Prog Clin Biol Res., 1993, 384:87-115.

63. Marcus CL, Keens TG, Bautista DB, von Pechmann WS, Ward SL., Obstructive Sleep Apnea in Children With Down Syndrome, Pediatrics, 1991, 88: 132-139.

64. Loughlin G.M., Wynne J.W, Victorica B.E. Sleep apnea as a possible cause of pulmonary hypertension in Down syndrome, J Pediatr., 1981, 98(3):435-437.

65. Kasian G.F., Ninan A., Duncan WJ. et al., Treatment of pulmonary hypertension with diltia-zem in a child with bronchopulmonary dysplasia, Can J Cardiol., 1988, May;4(4):181-184.

66. Dinan G.T., Golden T., OrofacialDyskinesia in Down’s Syndrome, Br J Psychiatry, 1990, 157, 131-132.

67. Sacks O.W., Acquired Tourettism in adult life, Adv Neurol., 1982, 35:89-92.

68. Kerbeshian J., Burd L., Comorbid Down’s syndrome, Tourette syndrome and intellectual disa-bility: registry prevalence and developmental course, J Intellect Disabil Res., 2000, Feb;44 (Pt 1):60-67.

69. Myers B., Pueschel S.M.., Tardive or atypical Tourette’s disorder in a population with Down syndrome?, Res Dev Disabil., 1995, Jan-Feb;16(1):1-9.

70. Sakai K., Kojima S., Matsumura T. et al., A case of Down syndrome complicated with Becker muscular dystrophy, Rinsho Shinkeigaku., 1993, Nov;33(11):1201-1203.

71. Moser H., Trisomy 21 in a boy with progressive muscular dystrophy (Duchenne), Z Kinderheilkd., 1971, 109(4):318-325.

72. Sakai K., Kojima S., Matsumura T. et al., A case of Down syndrome complicated with Becker muscular dystrophy, Rinsho Shinkeigaku., 1993, Nov;33(11):1201-1203.

73. Bird T.D., Myotonic dystrophy associated with Down syndrome (trisomy 21), Neurology., 1981, Apr; 31(4):440-442.

Inquadramento clinico, chirurgico e riabilitativo della persona con sindrome di down
Inquadramento clinico, chirurgico e riabilitativo della persona con sindrome di down
Umberto Ambrosetti - Valter Gualandri
VERSIONE EBOOKLa sindrome di Down è una patologia nota da tempo nei suoi aspetti morfologici, neuropsichiatrici ed organici. La presente raccolta di saggi, basati sull’attenta analisi della letteratura specialistica filtrata dall’esperienza diretta di ogni Autore, vuole essere una puntualizzazione per il Medico di base e per lo Specialista. Si è cercato di fornire uno strumento agile, ma completo e scientificamente aggiornato, per potere affrontare le varie patologie che non sono “speciali” perché colpiscono una persona Down, ma vanno inquadrate in una cornice particolare in quanto presenti in un soggetto con caratteristiche organiche e cliniche “particolari”. Questo testo non vuole essere uno strumento che induca ad una eccessiva medicalizzazione delle persone Down, le quali non debbono essere considerate “pazienti” ma individui soggetti a rischi clinici polimorfi, rischi che dobbiamo individuare e controllare, esercitando una medicina preventiva a tutti i livelli. Il lavoro, che ha visto impegnati un gran numero di esperti quotidianamente coinvolti nei vari ambiti specialistici per migliorare le condizioni di vita di queste donne e uomini vuole essere di aiuto nella comprensione e gestione delle manifestazioni di questo complesso quadro clinico provocato da una piccola quantità di DNA in eccesso sul cromosoma 21.