19. L'INVECCHIAMENTO

PAOLA AROSIO • CARLO VERGANI

Il processo biologico dell’invecchiamento comporta la perdita di strutture e funzioni dell’organismo.

Sono state proposte diverse teorie sull’invecchiamento (1). Secondo alcune l’invecchiamento è un fenomeno programmato regolato da una sorta di orologio interno; secondo altre l’invecchiamento è un fenomeno stocastico che risente dell’ambiente. Si ritiene che il genoma sia responsabile del 25-30% della durata e della qualità della vita (2-3). Esistono, tuttavia, alcune condizioni cliniche, dette “progerie”, caratterizzate dalla comparsa precoce di manifestazioni normalmente associate all’invecchiamento in cui la componente genetica è prevalente (4). Le progerie principali sono la sindrome di Werner (WS), la sindrome di Hutchinson-Gilford (HGPS) e la Sindrome di Down (SD).


La WS è una malattia autosomica recessiva, la cui incidenza è pari a 1 per 100.000 nati vivi, dovuta ad una mutazione di un gene sul cromosoma 8 che presiede alla sintesi della DNA elicasi (5). Il fenotipo è caratterizzato da bassa statura, calvizie, sclerodermia, cataratta precoce, ridotta tolleranza glicidica, alta incidenza di neoplasie e malattie cardiovascolari (6).


La HGPS, la cui incidenza è pari a 1 per 1.000.000 di nati vivi, è una malattia autosomica dominante. I soggetti affetti presentano alopecia, vasi del cranio prominenti, micrognazia, voce stridula, atrofia del tessuto sottocutaneo, bassa statura e alterazioni scheletriche. La morte di questi soggetti sopravviene tra i 7 e i 20 anni per ischemia miocardica o cerebrale. Nella HGPS, gran parte dei disturbi sono dovuti all’accumulo nella membrana nucleare di una proteina, la “lamina A”, dovuta ad una mutazione nel gene LMNA (7).


La sindrome di Down, la cui incidenza è di circa 1 su 1.000 nati vivi, è, fra le progerie, quella caratterizzata da un’attesa di vita più lunga e da una migliore qualità di vita.

La sopravvivenza si è sensibilmente allungata nelle ultime decadi. L’aspettativa di vita di un soggetto affetto da SD nato nel 1929 era di 9 anni, nel 1947 era di 12-15 anni, nel 1961 di 18,3 anni. Attualmente un soggetto con SD ha buone probabilità di vivere fino alla sesta decade di vita. In uno studio compiuto su 17.897 soggetti con SD eseguito dall’US Center of Disease


Control and Prevention, National Center for Health Statistics, l’età media della morte è passata da 25 anni nel 1983 a 49 anni nel 1997, sia nelle donne che negli uomini (8).

In Italia i dati epidemiologici del Centro Internazionale dei Difetti Congeniti (CIDC) confermano i dati della letteratura internazionale: la vita media dei soggetti con SD è di 45-46 anni, con una percentuale di sopravvivenza fra i 45 ed i 65 anni pari al 13%. In Italia vi sono circa 49.000 soggetti con SD, di cui circa 10.500 di età compresa tra 0 e 14 anni, 32.000 tra i 15 e 44 anni e 5.000 di età superiore ai 44 anni (9). Non esiste una differenza nell’aspettativa di vita fra i due sessi (8-10). Il significativo aumento della sopravvivenza è stato attribuito a diversi fattori quali la ridotta mortalità infantile ottenuta principalmente tramite la correzione chirurgica delle gravi malformazioni cardiache congenite, il miglioramento delle cure mediche e la programmazione di interventi di carattere sociale. Il “life planning” comporta una riduzione dell’istituzionalizzazione dei soggetti con SD e un allungamento della vita: la sopravvivenza dei soggetti istituzionalizzati è minore del 10-15% rispetto a quella dei non istituzionalizzati (11). Anche programmi di stimolazione intellettiva e motoria precoci, l’interazione con l’ambiente, la disponibilità di servizi sul territorio e la promozione dell’autonomia del soggetto si associano con un incremento della speranza di vita (8,11,12).

Le cause principali di morte delle persone con SD sono le malformazioni cardiache congenite, le infezioni respiratorie, la coronaropatia e la demenza (8-12).

Le persone con SD necessitano di controlli clinici e di laboratorio periodici che mirano a diagnosticare precocemente o a prevenire le patologie che si presentano con maggiore frequenza.

La prevalenza delle patologie oculistiche aumenta con l’età e, in particolare, i disordini refrattivi (miopia, astigmatismo, ipermetropia), la cataratta, il cheratocono, lo strabismo e il nistagmo (13,14).

L’ipoacusia neurosensoriale o di conduzione interessa fino al 70% dei soggetti SD specie in età adulta (12,13).

Nel 57% dei soggetti è presente il prolasso della valvola mitrale, nel 20% un’insufficienza aortica, condizioni che spesso rimangono asintomatiche fino all’età adulta (12,13,15).

Il diabete mellito, la celiachia, l’iperuricemia, il distiroidismo, in particolare l’ipotiroidi-smo, sono spesso presenti con sintomi sfumati non facilmente riconoscibili o talora considerati come facenti parte della sindrome stessa (12,13,16).

Il sistema immunitario è compromesso con alterazioni qualitative e quantitative delle cellule T e B, bassi livelli di IgM, alti livelli di IgG, difetti della chemiotassi; ciò espone i soggetti con SD ad un’elevata incidenza di infezioni e di malattie autoimmuni (17).

È presente atrofia cutanea con presenza di rughe, precoce incanutimento e perdita dei capelli.

Frequente nella SD è l’osteoporosi, caratterizzata da elevato rischio di frattura ossea, che viene attribuita ad un ridotto tono muscolare, alla vita sedentaria, ad anomalie endocrine e, nella donna, alla menopausa precoce (18).

Ad eccezione della leucemia acuta e del tumore del testicolo, nella SD l’incidenza dei tumori è più bassa rispetto alla popolazione generale e non aumenta con l’età. La minore incidenza è stata attribuita ad una ridotta esposizione ai fattori di rischio (fumo, alcool, ambiente di lavoro), alla presenza di geni oncosoppressori sul cromosoma 21 e ad un aumento dell’apoptosi cellulare (12,19).

Il 6-12% delle persone adulte con SD presentano depressione. I segni più comuni sono l’isolamento sociale, il mutismo, il rallentamento psicomotorio, la passività, l’umore deflesso, l’inappetenza, l’insonnia. La schizofrenia e il disturbo bipolare non sono frequenti negli adulti con SD, mentre possono manifestarsi il disturbo ossessivo-compulsivo e la psicosi atipica. La terapia della depressione si avvale degli inibitori selettivi del re-uptake della serotonina poiché sono stati evidenziati bassi livelli di serotonina e di triptofano (12,13,20).

I disturbi cognitivi che si manifestano in corso di SD sono sovrapponibili a quelli riscontrati nella demenza senile di tipo Azheimer (SDAT). Diversi studi hanno evidenziato che tutti i soggetti con SD al di sopra dei 35-40 anni presentano nel cervello i marker istologici caratteristici della SDAT, ossia la placca P-amiloidea e la degenerazione neurofibrillare. Il gene del-l’APP (proteina precursore dell’amiloide), sito sul cromosoma 21, è presente in triplice dose nella trisomia 21. Un ruolo importante viene svolto anche dalla P-secretasi, responsabile della proteolisi dell’APP, che è aumentata dopo i 40 anni in questi soggetti, e dal mancato equilibrio del metabolismo dei radicali liberi dovuto alla presenza in triplice dose del gene della superossidodismutasi (SOD) sul cromosoma 21. Inizialmente la P-amiloide si deposita nel lobo frontale e nella corteccia entorinale del cervello (21,22). Queste localizzazioni spiegano il comportamento del soggetto nelle fasi iniziali della compromissione cognitiva quali l’isolamento sociale, il peggioramento dell’espressione verbale e del linguaggio, il rallentamento psicomotorio e le modificazioni dell’umore (21,23). Successivamente compaiono deficit funzionali, deficit mnesici, crisi convulsive e incontinenza urinaria e fecale. È da notare che le lesioni caratteristiche neuropatologiche sono presenti nel cervello fin dalla quarta decade di vita, ma l’esordio dei sintomi della demenza compare dopo i 50 anni. La presenza nel cervello della quasi totalità dei soggetti con SD di placche amiloidee e degenerazioni neurofibrillari dopo i 40 anni non significa che l’adulto con SD vada inesorabilmente incontro alla demenza. Dopo i 65 anni, mentre la SDAT compare nel 7% della popolazione normale, la demenza è presente nel 50-70% dei soggetti con SD. L’incidenza della demenza si correla inversamente con gli anni di scolarità, con l’attività lavorativa e con gli indici di socializzazione. Un ulteriore fattore genetico di rischio è la presenza dell’allele e4 del gene dell’APOE sul cromosoma 19, che, secondo alcuni Autori, comporta una maggiore deposizione di P-amiloide nel cervello (24,25). Altri fattori di rischio per l’incidenza della demenza, quali l’ipercolesterolemia e la lunghezza dei telomeri, necessitano di ulteriori verifiche (21).

Nei soggetti con SD con deficit cognitivo è importante escludere la presenza di patologie (depressione, ipotiroidismo, disturbi sensoriali) a cui il deficit cognitivo possa essere secondario.

La terapia della demenza nelle persone con SD è sovrapponibile a quella usata per gli altri pazienti (12,21).

Down si nasce, ma i dati epidemiologici più recenti indicano che la durata e la qualità della vita dei portatori di questa anomalia cromosomica dipendono molto dall’interazione gene-ambiente.

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Inquadramento clinico, chirurgico e riabilitativo della persona con sindrome di down
Inquadramento clinico, chirurgico e riabilitativo della persona con sindrome di down
Umberto Ambrosetti - Valter Gualandri
VERSIONE EBOOKLa sindrome di Down è una patologia nota da tempo nei suoi aspetti morfologici, neuropsichiatrici ed organici. La presente raccolta di saggi, basati sull’attenta analisi della letteratura specialistica filtrata dall’esperienza diretta di ogni Autore, vuole essere una puntualizzazione per il Medico di base e per lo Specialista. Si è cercato di fornire uno strumento agile, ma completo e scientificamente aggiornato, per potere affrontare le varie patologie che non sono “speciali” perché colpiscono una persona Down, ma vanno inquadrate in una cornice particolare in quanto presenti in un soggetto con caratteristiche organiche e cliniche “particolari”. Questo testo non vuole essere uno strumento che induca ad una eccessiva medicalizzazione delle persone Down, le quali non debbono essere considerate “pazienti” ma individui soggetti a rischi clinici polimorfi, rischi che dobbiamo individuare e controllare, esercitando una medicina preventiva a tutti i livelli. Il lavoro, che ha visto impegnati un gran numero di esperti quotidianamente coinvolti nei vari ambiti specialistici per migliorare le condizioni di vita di queste donne e uomini vuole essere di aiuto nella comprensione e gestione delle manifestazioni di questo complesso quadro clinico provocato da una piccola quantità di DNA in eccesso sul cromosoma 21.