TERZA PARTE
AMBITO SPECIALISTICO CHIRURGICO
Canale atrioventricolare (CAV)
Per frequenza è la malattia cardiaca congenita più frequente tra i bambini affetti da sindrome di Down. Circa il 40% dei bambini Down cardiopatici ha un CAV. La malattia è caratterizzata dalla mancata formazione del tessuto settale sopra e sotto il livello delle valvole atrioventricolari, che possono essere più o meno coinvolte. La malattia è anche conosciuta come “difetto dei cuscinetti endocardici”. Fin dalle prime descrizioni anatomiche, a seconda della misura della partecipazione di entrambi i setti e di entrambe le valvole atrioventricolari, sono state definite tre forme di questa malattia: il canale atrioventricolare parziale, in cui generalmente è presente un difetto del setto interatriale e un coinvolgimento strutturale della valvola mitrale, una forma completa, in cui entrambi i setti non sono formati e le due valvole atrioventricolari sono fuse in un unico orifizio valvolare, ed una forma intermedia o transizionale, in cui rientrano tutte le altre possibili varianti delle due precedenti. La malattia include quindi uno spettro di malformazioni in cui si passa dalla forma più semplice, appunto il CAV parziale ad una ben più complessa (il CAV completo) passando attraverso le forme intermedie. Nei pazienti con sindrome di Down in genere, le forme più comuni sono quelle complete e quelle intermedie, in cui c’è o c’è stata la presenza del difetto interventricolare(1-5). La storia naturale dei pazienti non operati dipende ovviamente dai dettagli anatomici e funzionali della malformazione. Nelle forme parziali con lieve o minima insufficienza della valvola atrioventricolare sinistra, la storia naturale è molto simile a quella dei portatori di un semplice difetto interatriale, con un basso rischio di sviluppare ipertensione polmonare quando accade, solo nella terza o quarta decade di vita. Se invece l’insufficienza mitralica è moderata o severa lo sviluppo di ipertensione polmonare può essere più precoce e circa il 20% dei pazienti sono sintomatici già nella prima decade di vita. I pazienti con forme complete di CAV hanno una storia naturale decisamente peggiore. Senza intervento l’80 % dei pazienti non sopravvive all’infanzia e tra quelli che sopravvivono ai primi anni di vita il 90% sviluppa una vasculopatia polmonare significativa che rende impossibile alcun approccio chirurgico. Un dato che rafforza queste affermazioni è che nelle forme complete il 70% dei pazienti è operato entro l’anno di vita, mentre nelle forme parziali entro l’anno di vita è operato solo il 5% dei pazienti ed il 50 % viene corretto entro i 5 anni (6,7).
Tecnica chirurgica
L’obiettivo del trattamento chirurgico del CAV è: chiusura del difetto interatriale, immancabilmente presente; chiusura del difetto interventricolare, nel caso sia presente; creazione di due orifizi valvolari continenti e non ostruttivi; evitare di danneggiare strutture cardiache adiacenti, prima fra tutte l’apparato di conduzione dell’impulso elettrico al cuore che decorre molto vicino sia al difetto interatriale che a quello interventricolare. Per completare questo programma esistono varie tecniche in rapporto non solo al chirurgo, ma anche a come sono arrangiate le malformazioni. La via di accesso alle cavità cardiache è l’atrio dx. Aprendo l’atrio dx si possono correggere tutte le malformazioni intracardiache. Per semplicità descriviamo la tecnica utilizzata per correggere il canale atrioventricolare parziale e quella per la forma più comune di canale atrioventricolare completo.
CAV parziale
Come già detto in questa forma non si è formata la parte bassa, cioè adiacente il piano valvolare, del setto interatriale. Il difetto è definito “ostium primum”. Insieme al difetto interatriale c’è costantemente la partecipazione del grande lembo della valvola mitrale che risulta scomposto in due emilembi a causa di una fenditura del corpo del lembo valvolare (cleft mitralico). L’intervento consiste nel chiudere la fenditura del grande lembo mitralico suturandola direttamente e nel chiudere il difetto interatriale con una toppa (patch) di materiale biologico (membrane ricavate dal pericardio di animali), fissata ai margini del difetto. il rischio di complicanze globale è basso, quello di causare un blocco della conduzione atrioventricolare anche, ed i risultati sono eccellenti e stabili nel tempo, tanto da considerare l’intervento come definitivo. Dopo molti anni è possibile però che la valvola mitrale riparata diventi insufficiente tanto da rendere necessario un reintervento per sostituirla.
CAV completo
Nelle forme complete si è gia detto che ad essere coinvolte sono tutte le componenti cardiache e cioè i due setti e le due valvole atrioventricolari. Esistono alcune varianti anatomiche che riguardano soprattutto i rapporti tra le varie componenti del difetto e che ci permettono di classificare i CAV completi in tre forme, A, B e C. Per semplicità descriveremo solo la correzione delle forme di tipo A. La tecnica utilizzata dalla maggioranza dei chirurghi è quella cosiddetta del “doppio patch”, perché prevede l’uso di due patch separati per chiudere rispettivamente il difetto interatriale ed il difetto interventricolare. i due patch vengono poi suturati insieme risospendendo le cuspidi delle valvole atrioventricolari e di fatto separando all’interno della valvola atrioventricolare comune le due componenti, mitrale a sinistra e tricuspide a destra. I rischi sono intuitivamente maggiori che per la correzione del CAV parziale e, sebbene si tratti di un intervento ampiamente standardizzato e codificato, la variabilità delle forme anatomiche e all’interno di queste, la variabilità individuale, rende il risultato, soprattutto in termini di insufficienza residua delle valvole AV (mitrale in primis), alquanto aleatorio. Questo è molto importante tanto più che il risultato a breve e a lungo termine, dipende in larga misura proprio dalla eventualità di una insufficienza mitralica residua. Allo stesso modo il rischio di danneggiare le vie di conduzione è leggermente più elevato, così come quello di avere, nel periodo immediatamente postoperatorio, crisi di ipertensione polmonare, difficilmente controllabili se non con l’utilizzo di un gas, l’ossido nitrico, un potente vasodilatatore polmonare, che ha modificato sostanzialmente i risultati. Il rischio globale è quindi più alto, intorno al 10% con un rischio di morte significativamente più alto che nelle forme parziali. Inoltre, in maniera caratteristica non c’è differenza in termini di mortalità e morbilità ospedaliera tra le forme di CAV completo dei pazienti affetti da sindrome di Down e di quelli non sindromici. I rischi sono simili, ma i primi hanno un miglior risultato a distanza, espresso come una minore percentuale di reinterventi sulla valvola mitrale, da taluni studi messa in relazione ad una più facile ricostruzione delle valvole atrioventricolari nei soggetti Down. Anche questo è un intervento da intendersi correttivo, cioè definitivo, ma occorre tenere presente che circa il 10% dei pazienti operati di correzione di CAV completo, torna al cardiochirurgo per un reintervento per disfunzione mitralica, da esiti cicatriziali e dilatazione anulare, anche a distanza di molto tempo. Il timing ideale per operare il bambino con CAV completo è intorno ai sei mesi di vita, ad un peso di circa 6 kg, ben prima quindi che si stabilisca una ipertensione polmonare irreversibile che renderebbe controindicato l’intervento chirurgico correttivo (7-9).
Difetto interventricolare (DIV)
Per frequenza è la seconda malattia cardiaca congenita più frequente tra i pazienti affetti da sindrome di Down. Circa il 28% dei pazienti Down cardiopatici ha un difetto interventricolare (1). La malattia è caratterizzata da un “foro” o più “fori” nel setto interventricolare, quella parete muscolare che separa i due ventricoli. Storicamente la correzione del difetto interventricolare è stato uno dei primi interventi di cardiochirurgia ad essere effettuato, nel lontano 1954, negli Stati Uniti, e le prime serie di pazienti operati con una tecnica chirurgica molto simile a quella utilizzata adesso, sono comparse in letteratura fin dal 1960. Dal punto di vista anatomico c’è una notevole variabilità in forma, dimensione e localizzazione del difetto nel contesto del setto interventricolare, per cui esiste una classificazione anatomochirurgica in rapporto a queste variabili. Questa classificazione esula dagli scopi di questo capitolo, ma è comunque utile al chirurgo per localizzare il difetto e decidere quale approccio chirurgico utilizzare. I DIV hanno una tendenza spontanea alla riduzione dimensionale, che può portarli fino alla chiusura, in genere entro l’anno di vita. Non è mai stata dimostrata una chiusura spontanea oltre i 5 anni di età. Il 5 - 10 % dei pazienti con DIV sviluppano una ostruzione del ventricolo dx sotto l’arteria polmonare (stenosi infundibolare), forse perché predisposti da una angolatura particolare del setto interventricolare (malallineamento). I DIV ampi predispongono maggiormente allo sviluppo di una ipertensione polmonare, ma in effetti questo evento sembra essere in relazione anche all’età, nel senso che anche piccoli DIV se non corretti precocemente possono portare all’ipertensione polmonare irreversibile (6,7).
Tecnica chirurgica
Una notazione è doverosa, e cioè che di fronte ad un bambino con difetti interventricolari multipli (tanti piccoli fori un po’ dappertutto, che nei casi estremi configurano il setto tipo ”formaggio svizzero”), l’indicazione chirurgica non è quella di correggere la malattia, e quindi chiudere i buchi, ma solo di prendere tempo, far crescere il bambino senza danneggiargli i polmoni e rimandare l’intervento correttivo ad un momento successivo. Per realizzare questo obiettivo si sottopone il piccolo paziente ad un intervento chirurgico palliativo di “bendaggio dell’arteria polmonare”, riducendo in maniera controllata l’afflusso di sangue verso i polmoni. In questo modo i polmoni non si ammalano per l’iperafflusso, acuni fori si chiudono durante la crescita a causa dell’ipertrofia cardiaca indotta dal bendaggio, e l’intervento correttivo sarà effettuato su un bambino più grande, magari utilizzando tecniche miste, chiudendo alcuni DIV in sala di emodinamica ed altri in sala operatoria. Questo intervento di “bendaggio” si fa senza l’utilizzo della CEC (7,8).
Gli interventi correttivi, a prescindere da dove si trova e quanto è grande il DIV, si effettuano in CEC, attraverso una sternotomia mediana, raggiungendo l’interno del cuore attraverso l’atrio dx eil setto interventricolare attraverso la valvola tricuspide.. Il DIV si chiude con un patch di materiale biologico (pericardio bovino o equino) fissato lungo i margini del difetto. Raramente si deve utilizzare una via di accesso diversa, e solo se il difetto non è completamente controllabile con le tecniche abituali. In tal caso si può passare direttamente dal ventricolo oppure dall’arteria polmonare. il rischio globale per questi interventi è basso, meno del 5% con una mortalità che si avvicina allo zero. Il rischio di provocare un blocco della conduzione cardiaca è basso. Ovviamente non è così per i DIV multipli, in cui, oltre al rischio di non riuscire a chiuderli tutti, si sommano i rischi di due interventi. La chirurgia è definitiva e correttiva (7,8).
Difetti interatriali (DIA)
È la terza malattia congenita del cuore per frequenza nei bambini con sindrome di Down. Circa il 7% dei Down cardiopatici ha un difetto interatriale (DIA) (1). Esistono diversi tipi di DIA a seconda della posizione, delle dimensioni e dell’impegno emodinamico e si rimanda alla sezione cardiologia per questo inquadramento. Nonostante si tratti di una malformazione cardiaca importante, non è immediatamente letale e solo l’1% dei bambini sviluppa sintomi nel primo anno di vita. L’aspettativa di vita è buona, il rischio di morte è basso e tale si mantiene durante tutta la vita, destinato ad aumentare in rapporto allo sviluppo di ipertensione polmonare. Tale rischio è dell’1% a venti anni ma aumenta fino al 5 - 15% alla terza, quarta decade di vita. Si può affermare che solo il 25% delle persone affette da DIA ampio e non operate, muoia di questa malattia dato che i sintomi si sviluppano tardi, quando cioè altre condizioni non correlate possono causare morte. La possibilità che il DIA si chiuda è significativa solo nel primo anno di vita, del 20% in alcune serie, e decresce all’aumentare dell’età (6,7).
Tecnica chirurgica
Con la correzione del DIA ha inizio la storia della cardiochirurgia moderna. Il primo intervento di cardiochirurgia a cuore aperto in CEC è stato effettuato nel 1953 ed era appunto la correzione di un DIA. In effetti esistevano già alcune tecniche che permettevano di chiudere il difetto dall’esterno, senza aprire le cavità cardiache, ma si trattava di metodi ingegnosi e difficilmente riproducibili su larga scala. Da allora molti progressi sono stati fatti. Il rischio chirurgico è molto basso, tanto da spingere i chirurghi a cercare modalità di approccio alternative alla sternotomia mediana, soprattutto nei pazienti di peso adeguato. Facciamo riferimento alle sternotomie parziali, o a tecniche miniinvasive che riducono l’entità della cicatrice cutanea ma permettono di effettuare la correzione del DIA in CEC con rischi ancora accettabili. Per contro anche i cardiologi hanno messo a punto tecniche di chiusura percutanea, cioè senza intervento chirurgico, che si sono perfezionati a tal punto da essere considerati il metodo di scelta per correggere la malattia in una percentuale molto elevata di pazienti. Si può affermare che oggi il cardiochirurgo chiuda chirurgicamente quei DIA che il cardiologo non riesce ancora a trattare, perché troppo grandi (in assoluto o in rapporto al paziente), perché con margini troppo elastici per assicurare stabilità al device utilizzato o perché asimmetrici (DIA seno venoso e cavale inferiore) o troppo vicini ad altre strutture (DIA ostium primum). L’intervento tradizionale è condotto in sternotomia mediana, in CEC e chiudendo il difetto attraverso l’atrio destro con un patch o se il difetto è piccolo suturando i margini direttamente. Come detto il rischio è basso e l’intervento è correttivo (7,8).
Tetralogia di Fallot (TF)
È meno frequente delle altre. Solo il 3,5 % dei bambini Down ha una tetralogia di Fallot o una malattia assimilabile in termini di anatomia chirurgica e fisiopatologia (1). La malattia è caratterizzata da una ipoplasia dell’infundibolo polmonare (la parte di ventricolo destro connesso all’arteria polmonare) e da un’alterazione della disposizione spaziale del setto inter-ventricolare alto (conale) che si viene a trovare malallineato rispetto al setto interventricolare propriamente detto. Questo condiziona da una parte l’ostruzione sottopolmonare, dall’altra la formazione di un difetto interventricolare sotto aortico molto ampio tanto da condizionare un cavalcamento della radice aortica sul difetto interventricolare.
Tecnica chirurgica
Nel 1945 è stato effettuato il primo intervento chirurgico per trattare la TF; non si trattava di un intervento correttivo, bensì di un intervento palliativo, con l’obiettivo di aumentare la quantità di sangue che andava verso i polmoni: lo shunt sistemico-polmonare. Consiste nella creazione di un collegamento tra l’aorta e l’arteria polmonare e precisamente tra l’arteria succlavia destra o sinistra e l’arteria polmonare destra o sinistra. Solo nel ‘54 è stato effettuato il primo intervento chirurgico correttivo intracardiaco, ma per lungo tempo gli interventi palliativi di shunt sistemico-polmonare (ne esistono altri tipi con differenti modi di collegare i due sistemi ma con il medesimo risultato) sono stati il modo di approcciare chirurgicamente la TF. La correzione avveniva in due tempi, lo shunt in epoca neonatale e la correzione dopo l’anno di vita o quando c’era necessità clinica. Oggi la malattia si tratta in modo leggermente differente. La correzione primaria (intervento definitivo direttamente senza shunt) è il trattamento di scelta. La correzione si può effettuare anche in epoca neonatale, con risultati soddisfacenti e rischi accettabili. In ultima analisi la correzione primaria è possibile per quasi tutti i pazienti, tranne per quelli in cui l’anatomia del cuore o le relazioni tra le strutture cardiache non la permettano (anomalie coronariche o ipoplasia delle polmonari per esempio). Questi casi continuano ad essere trattati in due tempi. La storia naturale di questa cardiopatia, nella forma classica con stenosi polmonare, è dominata dalla cianosi, tanto più grave quanto più severo è il grado di ostruzione al flusso polmonare. Se la malattia non viene trattata, il 25% muore entro l’anno di vita, il 40% entro i 3 anni, il 70% entro i 10 anni ed il 95% entro i 40 anni (7-9).
Non tutti i bambini sono cianotici alla nascita, ma lo diventano progressivamente durante le prime settimane e la cianosi è in genere ingravescente. I pazienti che sopravvivono alla malattia inevitabilmente presentano segni di scompenso cardiaco e grave cianosi. L’intervento chirurgico è correttivo, e consiste nel chiudere il difetto interventricolare con un patch, lasciando l’aorta collegata al ventricolo sinistro e nell’allargare o ricostruire la connessione tra il ventricolo destro e l’arteria polmonare, in genere con un altro patch. Come al solito l’intervento è in CEC, e si effettua in parte attraverso la valvola tricuspide (chiusura del DIV) ed in parte attraverso un’apertura del ventricolo destro. Il rischio di quest’intervento è basso, ma dipende in larga parte da alcune variabili tipo l’anatomia, il peso del paziente al momento dell’intervento e la criticità del paziente. Per meglio dire, neonati con anomalie coronariche o ipoplasia delle arterie polmonari hanno rischi più elevati di pazienti di sei mesi con forme più regolari di TF. Nonostante la chirurgia sia definitivamente correttiva, il 10% dei pazienti ritorna al cardiochirurgo con un vizio residuo o recidivo. In genere si tratta di stenosi dei rami polmonari o ostruzioni polmonari residue alla correzione, più raramente di severe insufficienze della valvola polmonare e ancora più raramente per malattie della radice aortica, che tende naturalmente alla dilatazione in questa malattia. I reinterventi sono in genere tardivi. Nella forma regolare il rischio è basso, meno del 5% (7-9).
Pervietà del dotto arterioso (PDA)
La frequenza con cui questa malattia si presenta nei bambini con sindrome di Down è bassa, 3,5 % (1). Più che una malattia congenita possiamo considerarla come un evento che si realizza dopo la nascita a causa della mancata chiusura del dotto arterioso, che dovrebbe naturalmente occludersi nei giorni successivi al parto. Il dotto, che nella vita intrauterina del feto è essenziale per la circolazione sanguigna, dopo la nascita non serve più, ed è dotato di fibre muscolari che stimolate dall’aumento dell’ossigeno nel sangue, si contraggono, occludendolo. Quando questo sistema di autocontrollo non funziona il dotto resta pervio e continua a collegare il letto circolatorio sistemico con quello polmonare. L’iperafflusso polmonare che ne deriva conduce abbastanza precocemente all’ipertensione polmonare. La PDA è la regola nei bambini nati pretermine di basso peso. Sotto i 1000 g di peso alla nascita circa il 50 % dei bambini ha il dotto pervio a causa dell’immaturità del sistema di controllo. Esistono farmaci in grado di risolvere il problema, inducendo una chiusura farmacologica del dotto, ma non sempre funzionano e qualche volta sono essi stessi causa di seri problemi collaterali, tanto da non poterli usare. In tal caso, anche in bambini con pesi inferiori ai 1000 g, è possibile chiudere chirurgicamente il dotto, attraverso una piccola toracotomia. Al di fuori di questi casi obbligati, in genere il dotto pervio è una diagnosi che conduce ad un intervento elettivo, raramente nei primi mesi di vita e generalmente entro l’anno. La quasi totalità dei dotti sono oggi chiusi in sala di emodinamica dal cardiologo, utilizzando specifici device, quindi senza intervento chirurgico. In sala operatoria si chiudono solo i dotti nei bambini troppo piccoli e quelli in cui il cardiologo non riesce a posizionare il sistema di chiusura. L’intervento è senza CEC, attraverso una toracotomia sx ed il rischio è basso (7-9).
BIBLIOGRAFIA
1. Kallen et Al, Congenital malformation in Down sindrome, Am J Med Gen, 1996, 65:160.
2. Feingold M., Cardiac studies on Down sindrome infants, Am J Med Gen, 2003, 120A:444.
3. Malec et Al, Results of surgical treatment of congenital heart defects in children with Down’s syndrome, Pediatr Cardiol, 1999, 20:351.
4. Shaffer R. et al, Surgery of complete atrioventricular canal, Cardiology, 1999, 91:231.
5. Formigari R.et Al, Better surgicalprognosis for patients with complete atrioventricular septal defect and Down’s syndrome, Ann Thorac Surg, 2004, 78:666.
6. Moss’, Heart disease in infants, children and adolescents,
7. Kirklin J. Barrat-Boyes B., Cardiac Surgery, Wiley ed NY 1996.
8. Doty D.B. Cardiac Surgery, operative technique, Mosby, 2000.
9. Braunwald’s heart disease, Elsevier 2005.
Inquadramento clinico, chirurgico e riabilitativo della persona con sindrome di down
Umberto Ambrosetti - Valter Gualandri
VERSIONE EBOOKLa sindrome di Down è una patologia nota da tempo nei suoi aspetti morfologici, neuropsichiatrici ed organici.
La presente raccolta di saggi, basati sull’attenta analisi della letteratura specialistica filtrata dall’esperienza diretta di ogni Autore, vuole essere una puntualizzazione per il Medico di base e per lo Specialista.
Si è cercato di fornire uno strumento agile, ma completo e scientificamente aggiornato, per potere affrontare le varie patologie che non sono “speciali” perché colpiscono una persona Down, ma vanno inquadrate in una cornice particolare in quanto presenti in un soggetto con caratteristiche organiche e cliniche “particolari”.
Questo testo non vuole essere uno strumento che induca ad una eccessiva medicalizzazione delle persone Down, le quali non debbono essere considerate “pazienti” ma individui soggetti a rischi clinici polimorfi, rischi che dobbiamo individuare e controllare, esercitando una medicina preventiva a tutti i livelli.
Il lavoro, che ha visto impegnati un gran numero di esperti quotidianamente coinvolti nei vari ambiti specialistici per migliorare le condizioni di vita di queste donne e uomini vuole essere di aiuto nella comprensione e gestione delle manifestazioni di questo complesso quadro clinico provocato da una piccola quantità di DNA in eccesso sul cromosoma 21.