30. I DISTURBI MENTALI

BOBOCEL RUSTEA • SILVIO SCARONE
Riguardo alla suscettibilità o meno delle persone con sindrome di Down (SD) ai disturbi psichiatrici vi sono state, nel tempo, diverse speculazioni. Per via della loro natura affabile e del ritardo mentale (RM) si è ritenuto in passato che queste persone non soffrissero di tali disturbi quanto la popolazione generale.
I miglioramenti nella qualità di vita delle persone con SD negli ultimi anni sono derivati dai progressi nelle cure mediche in generale, negli interventi educativi precoci con l’introduzione di un sostegno nei contesti educativi tradizionali e, non in ultimo, nella diagnosi e nella terapia dei disturbi psichiatrici (1).
In certi ambiti, però, gli psichiatri sono stati a lungo associati ad un intervento farmacoterapico improprio o ad un vero abuso di farmaci (2). Questa associazione ha comprensibilmente condotto ad un atteggiamento di rifiuto rispetto al coinvolgimento dello psichiatra nell’intervento sulla persona con RM in generale e con SD in particolare e rispetto all’uso di farmaci psicoattivi, atteggiamento che è ancora presente in alcuni ambiti e che dovrebbe essere corretto con una maggiore attività educazionale, da parte dello psichiatra stesso, nei confronti dell’equipe multidisciplinare di cui è parte e dei familiari dei pazienti (3-4).
I farmaci psicoattivi sono spesso usati senza una precisa diagnosi psichiatrica o per comportamenti giudicati contestualmente inadatti. Le difficoltà importanti nel fare delle valutazioni attendibili ed impostare cure psichiatriche valide per motivi organizzativi e di accesso ai servizi rappresentano una limitazione importante per i professionisti della salute mentale nell’individuare la malattia mentale in persone con SD e/o RM. Inoltre, ogni sintomo presentato dal soggetto con SD e RM è spesso attribuito al RM, che “spiega tutto”, mascherando la presenza di altri disturbi in associazione (diagnostic overshadowing) (5).
Gli individui con SD hanno, oggi, delle grandi opportunità di integrazione nella famiglia e nella comunità. Purtroppo, questi individui non raramente presentano un tasso alto di disordini psichiatrici. I problemi di salute mentale non trattati o impropriamente trattati conducono a istituzionalizzazioni, a programmi restrittivi di gestione ed alla prescrizione di psicofarmaci per controllo del comportamento (6).

A. La sindrome di Down ed il ritardo mentale

Da quando la SD è stata descritta per la prima volta da Langdon Down nel 1866 sulla base delle caratteristiche fisiche associate ad una funzione mentale subnormale, questa sindrome è rimasta la malattia più studiata e più discussa tra quelle associate al RM e, sulla base dei dati epidemiologici, si può affermare che la SD rimane la causa più comune di disabilità intellettiva.

Si presume che il RM, nella maggior parte dei casi, sia causato da anomalie dello sviluppo del cervello. Gli sviluppi nel campo della psichiatria negli ultimi decenni hanno sottolineato il ruolo del substrato neurobiologico nel causare varie malattie mentali e si può presumere che le persone con RM possono avere una predisposizione supplementare a tali problemi a causa delle differenze nell’organizzazione del cervello e nel funzionamento del sistema neurotrasmettitoriale(6).

La ricerca rivela una non completa adeguatezza degli attuali sistemi diagnostici (DSM-IV e ICD-10) rispetto al RM. Il DSM-IV (7) definisce il Ritardo Mentale come la via finale comune dell’azione di agenti patogeni di diversa natura che agiscono sul Sistema Nervoso Centrale. Tre sono i criteri diagnostici del quadro clinico, che il DSM-IV condivide con l’ICD-10 (8) e con il più recente manuale dell’American Association for Mental Retardation (AAMR) (9):

- la presenza di un disturbo intellettivo, con caduta di almeno due deviazioni standard rispetto alla norma (QI inferiore a 70, misurato con i più comuni test di valutazione dell’intelligenza, come le Scale Wechsler, le Matrici di Raven, ecc.);

- la presenza di un disturbo significativo delle capacità di adattamento alle esigenze di un ambiente sociale normale;

- l’insorgenza prima dei 18 anni.

Il ritardo mentale è l’aspetto saliente della SD. La maggior parte dei pazienti appartiene ai gruppi con ritardo moderato e grave; solo una minoranza ha un QI superiore a 50. Il declino intellettivo può essere reale o apparente (10). Un’adeguata valutazione della frequenza dei comportamenti disadattivi e psicopatologici richiede, quindi, che i dati relativi alla SD siano confrontati con almeno altri due tipi di popolazioni di individui: normodotati e con RM non dovuto alla SD.

Sono stati individuati diversi fattori sociali e ambientali che si correlano con la durata e la qualità della vita, in particolare con la compromissione cognitiva. Essi comprendono lo stato sociale, la disponibilità di servizi sul territorio, l’interazione con l’ambiente e lo stimolo intellettivo (11). Il livello di sviluppo differisce molto tra le persone con SD. Se nella prima parte dell’infanzia il loro sviluppo si colloca ai limiti inferiori dello sviluppo cognitivo normale, il quoziente intellettivo diminuisce nella prima decade di vita. Durante l’adolescenza il livello di sviluppo arriva a plateau e si mantiene durante l’età adulta. L’apprendimento può essere rallentato dalla messa in atto di strategie di evitamento, quando la persona si confronta con sfide cognitive (1).
Il problema della carenza di comportamento strategico in soggetti ritardati appare centrale; esso rappresenta una componente fondamentale di una teoria complessiva sul RM. Se è vero che il dato caratteristico e fondamentale del RM è rappresentato dal disturbo cognitivo, è altrettanto vero che il quadro clinico non si esaurisce nel disturbo cognitivo. Il RM è al contempo una struttura generale della personalità ed una sindrome complessa nella quale convergono disturbi cognitivi, motori, linguistici, affettivi e relazionali. Il modo con il quale questi sintomi si associano definisce diverse realtà cliniche, che differiscono tra loro non solo quantitativamente, ma anche qualitativamente. Esiste poi una serie di disturbi che, pur non essendo direttamente legati al RM, sono frequentemente associati ad esso, in quanto conseguenti alle cause che hanno prodotto anche il disturbo cognitivo (12).

Il RM, pur variabile, è presente in tutti i pazienti con il SD. La maggior parte dei bambini e degli adulti con SD si collocano nella fascia lieve o moderata del RM. Circa 10% hanno un grado lieve o a limite di disabilità intellettiva. Una minoranza ha un danno cognitivo severo o profondo (13).


Gli individui con RM possono presentare sintomi delle malattie mentali che sono, spesso, diversi da quelli della popolazione normale. A causa delle limitazioni nelle abilità conoscitive in generale e nell’abilità verbale in particolare, le persone con RM non possono descrivere in modo articolato le loro condizioni ed i vissuti intimi. Per questi motivi, non possono aderire in modo adeguato all’intervista diagnostica psichiatrica, che è la pietra angolare della diagnosi e della programmazione del trattamento. Inoltre, il comportamento maladattivo, i danni a livello del substrato neurobiologico, il ritardo dello sviluppo ed i fattori psicosociali possono determinare manifestazioni esterne della malattia mentale differenti da quelle ordinariamente riscontrate nelle persone di intelligenza normale (6). Il danno cognitivo è il fattore principale della manifestazione diversa e dell’esigenza di approccio differente dei disturbi psichiatrici nelle persone con RM. A causa dell’intelligenza bassa, le domande poste durante l’intervista diagnostica possono essere mal comprese ed avere delle risposte errate. Le domande che riguardano lo sviluppo dei sintomi, le esperienze interiori, la condizione fisica ed il funzionamento sociale e professionale sono troppo complesse anche per le persone con RM lieve. Inoltre, le limitazioni nella comunicazione verbale, il vocabolario ridotto e la difficile comprensione della lingua astratta alterano la capacità di rispondere alle domande. Queste difficoltà si estendono anche alla valutazione della risposta al trattamento, una volta che un programma di trattamento è stato avviato (6).

Per alcuni disturbi psichiatrici, il rapporto verbale è assolutamente necessario per stabilire una diagnosi. È impossibile diagnosticare la schizofrenia nel RM severo e profondo per l’incapacità di riferire le allucinazioni ed i deliri (14).

Le persone con RM possono presentare manifestazioni di una malattia mentale che non solo sono differenti da quelle riscontrate in persone di intelligenza normale ma, si manifestano spesso con un aumento dei disturbi di comportamento durante la sua evoluzione (15). Per esempio, l’autoaggressività preesistente può notevolmente aumentare (16). Purtroppo, i disturbi del comportamento diventano spesso il centro dell’attenzione per i caregivers che non considerano la possibilità che una malattia mentale possa determinare il cambiamento del comportamento.

Il RM impatta anche in altri modi sulla manifestazione della malattia mentale. Per esempio, la grandiosità di un episodio maniacale può non essere evidente. Gli individui maniacali con RM possono essere “grandiosi” nella convinzione di essere in grado di guidare un’automobile, mentre un paziente con intelligenza normale ha un comportamento più sofisticato (15).

Le persone con disabilità affrontano molte barriere nella società. Soffrono la stigmatizzazione da parte degli altri, il rifiuto ed il pregiudizio sociale. Per questo, le persone con disabilità possono essere motivate a nascondere le loro limitazioni e l’ammissione di una disabilità supplementare dovuta alla malattia mentale. Di conseguenza le interviste o i questionari di autovalutazione sono di valore limitato. Per esempio, le persone con RM possono rispondere con “sì” a tutte le domande per mascherare la confusione. Durante l’intervista psichiatrica, le domande che richiedono la risposta con “sì” o “no” sono, quindi, inadeguate (5).

La scarsa capacità di esprimere stati affettivi, così come il polimorfismo e la frequente aspecificità delle manifestazioni cliniche, rende la diagnosi di disturbi emotivo-affettivi e comportamentali del RM particolarmente complessa. Lo stretto intreccio di fattori organici, emotivo-relazionali e sociali, rende la diagnosi tipicamente globale. Elementi irrinunciabili sono: una dettagliata raccolta anamnestica individuale e familiare, un’accurata indagine medica, psicologica (cognitiva e della personalità), neuropsicologica e psichiatrica, così come una conoscenza della situazione ambientale del soggetto.

L’utilizzazione di scale di valutazione è particolarmente diffusa nella pratica clinica degli ultimi anni, in quanto consente valutazioni quantitative rapide di alcuni parametri psicologici e rende possibili delle rivalutazioni in dinamica (12). Gli individui con RM moderato o severo non possono descrivere solitamente in modo esatto i loro pensieri e percezioni. Tali descrizioni sono richieste spesso, quando si usa uno schema diagnostico (DSM-IV). Le persone con RM lieve, tuttavia, possono rispondere esattamente alle domande circa l’affettività, le percezioni ed i pensieri. Quindi, le categorie del DSM-IV-TR possono essere usate. La classificazione internazionale dei disturbi (ICD) è più flessibile nella guida clinica di riferimento, benché possano ancora essere riscontrate delle difficoltà nel tentativo di diagnosticare i disturbi psichiatrici in persone con i quozienti d’intelligenza molto bassi.

Tutte queste limitazioni negli iter diagnostici classici rendono difficili le diagnosi psichiatriche specifiche. Tuttavia, è stata studiata la possibilità di usare i criteri diagnostici standard, concettualizzati dal DSM-iV, per le persone con ritardo mentale, attraverso degli equivalenti. usando questo metodo, si possono generare delle manifestazioni del comportamento che sono simili a quelle richieste nel DSM-IV (6).

Per tutti questi motivi i professionisti della salute mentale devono essere formati adeguatamente per poter diagnosticare e curare nel modo migliore gli individui con RM (6).

B. Prevalenza dei disturbi psichiatrici negli adulti con SD

Paragonabile al più ampio spettro delle disabilità intellettive, molte lacune esistono ancora nella ricerca e nel trattamento delle malattie mentali nelle persone con SD (17). Mentre esiste una considerevole letteratura sugli adulti con SD con demenza, poche sono le pubblicazioni sull’epidemiologia di altri tipi di disturbi mentali in questa popolazione (18).

Nel complesso, le persone con SD sembrano essere meno vulnerabili ai disturbi psichiatrici rispetto a quelle con ritardo mentale di altra origine. Esse sono più vulnerabili alla demenza di tipo Alzheimer e ai disturbi depressivi, ma sono in qualche modo protette contro

10 sviluppo della schizofrenia, degli stati paranoidi, dei disturbi di personalità e di condotta. I tratti autistici sembrano essere altrettanto comuni nei soggetti con SD come in quelli senza (19). Il modello di fattori associati differisce da quello trovato per adulti con ritardo mentale di altra natura e le associazioni trovate sono poche. Questo suggerisce che la protezione contro le patologie psichiatriche è determinata biologicamente in questa popolazione, o che ci sono altri fattori protettivi ancora da identificare per la popolazione con SD (18).

I tassi di prevalenza dei disturbi psichiatrici in adulti con SD si sono dimostrati maggiori rispetto alla popolazione generale ma simili a quelli per gli adulti con RM non-Down. La demenza di tipo Alzheimer (DAT), la depressione ed il disturbo ossessivo-compulsivo sono associati in modo particolare alla SD.

Particolare attenzione è stata prestata alla demenza di tipo Alzheimer, la circostanza che più frequentemente è associata alla SD. Esiste una forte evidenza per una predisposizione genetica a sviluppare DAT, anche se non tutti gli adulti con SD evolvono in questo senso ed esistono numerose segnalazioni di adulti con SD che sopravvivono fino alla settima decade di vita (20).

Escludendo le ricerche che indicano valori estremi in difetto o in eccesso rispetto alla maggioranza delle ricerche, sono stati segnalati comportamenti disadattivi o psicopatologici nel 25% circa degli individui con SD. Si tratta di valori abbastanza alti in assoluto e da 3 a 5 volte superiori rispetto alla popolazione generale, ma è possibile anche leggerli nel senso che 3 individui su 4 non manifestano comportamenti disadattivi o psicopatologici veri e propri.

Il disturbo più frequente in età minore è il disturbo da deficit di attenzione con o senza comportamenti oppositori e provocatori. In età adulta sono possibili disturbi depressivi circa in un individuo su 12 (6-11%). Relativamente poco frequenti sono i disturbi d’ansia e l’autismo (1-2%). I dati di cui sopra si riferiscono a comportamenti chiaramente patologici. Se consideriamo quelli problematici, anche se non gravi, le percentuali aumentano (21).

II 17,6% delle persone con SD con meno di 20 anni ha un disturbo psichiatrico, il più delle volte un disturbo comportamentale come deficit di attenzione-iperattività (6,1%), un disturbo oppositivo della condotta (5,4%) o un comportamento aggressivo (6,5%). Il 25,6% degli adulti con SD ha un disturbo psichiatrico, il più delle volte depressione maggiore (6,1%) o comportamento aggressivo (6,1%) (1).

Esaminando gli individui adulti è stata riscontrata una frequenza di 26-30% di disturbi psichiatrici in individui con SD rispetto al 38% degli altri individui con ritardo mentale (2223). Usando Diagnostic Research Criteria (DCR-10), la depressione, il disturbo ossessivo ed i disturbi comportamentali sono le malattie mentali più comuni (23).

In definitiva, la SD è meno caratterizzata da comportamenti disadattivi e psicopatologici rispetto all’insieme degli individui con altri tipi di ritardo mentale. Un’eccezione a quanto sopra è costituita dai disturbi depressivi, più frequenti (6-11%) in caso di SD. Molto raro è il disturbo bipolare, cioè caratterizzato da alternanza di mania e depressione.

Si può sospettare che la variabile maggiormente responsabile di queste differenze sia l’uso di criteri di classificazione diversi da parte degli studiosi.

L’adattamento degli strumenti di valutazione e dei protocolli di trattamento per le persone con SD è necessaria ma, con una valutazione psichiatrica attenta e dettagliata, virtualmente tutti i disturbi possono essere rilevati. Rimane di importanza fondamentale che tutti gli psichiatri qualificati e quelli in formazione siano informati sull’aumentata morbosità psichiatrica negli adulti con SD (20).

C. Psicopatologia negli adulti con Sindrome di Down

a. Disturbi affettivi

La depressione sembra essere molto comune nelle persone con SD, anche se esistono relativamente pochi studi epidemiologici in merito in questa popolazione. Nella popolazione generale, la prevalenza dei disturbi affettivi varia secondo i criteri diagnostici usati, ma il tasso di depressione è dell’ordine di 2-10%. Fra le persone con disabilità intellettive la prevalenza della depressione è di circa 1-3,5%, mentre tra gli adulti con SD la depressione varia tra 2% e 5,0% (23-24). La depressione è comunque uno dei più diagnosticati disturbi psichiatrici nelle persone con RM, particolarmente in quelli con SD.

La diagnosi di depressione è difficile nelle persone con SD a causa dell’alterazione delle abilità verbali, del pensiero formale e del funzionamento cognitivo generale, che limitano la partecipazione dell’individuo al processo di intervista psichiatrica. Per formulare la diagnosi ed il programma di trattamento, i clinici della salute mentale contano sui test diagnostici e scale di valutazione standard che supportano i criteri del DSM-IV (25). Molti di questi test si basano sull’autoreferenzialità dei vissuti soggettivi (come espressioni verbali di tristezza o di indegnità). Sono, quindi, di valore limitato nella diagnostica nelle persone che hanno una diminuzione delle capacità di articolazione del pensiero e dell’affettività (26). In quanto alla difficoltà della diagnosi di depressione, quando il paziente non può adeguatamente riferire i propri vissuti, la situazione diventa più critica quanto più grave è il RM ed il livello di sviluppo linguistico è scarso.

I caregivers non pratici con la sintomatologia psichiatrica possono essere a conoscenza dei cambiamenti critici ma non rapportarli al personale medico-sanitario per una mancanza di comprensione dell’importanza di tali manifestazioni (5,15) e possono, a volte, essere molto insensibili alle manifestazioni della depressione nelle persone con RM, in quanto è raro che siano sufficientemente attendibili nella valutazione dello stato dell’umore (6). È, quindi, estremamente importante che i caregivers riconoscano i sintomi della depressione e che considerino questa eventualità prima che questi pazienti siano “etichettati” come dementi o psicotici, situazioni che, entrambe, condurrebbero ad un trattamento inadeguato.

Come già detto, negli adulti con SD la depressione ha caratteristiche diverse da quelle della popolazione generale. Le caratteristiche cognitive (per esempio la perdita della memoria, la perdita di concentrazione, l’ideazione suicida) non possono essere sempre o facilmente evidenti. Le caratteristiche biologiche (rallentamento psicomotorio, disturbi del sonno, perdita di appetito, calo ponderale) sono invece più significative. Il declino delle abilità adattive (per esempio vestirsi, lavarsi, alimentarsi) è associato in modo significativo con la depressione e la depressione è una causa comune della riduzione della funzionalità in persone con SD. Per gli adulti con SD, gli studi descrivono sintomi depressivi che si presentano spesso come cambiamenti del comportamento come il ritiro, la perdita di abilità adattive e cambiamenti del tono dell’umore. Oltre ai problemi gravi del comportamento, le caratteristiche psicotiche sono una manifestazione comune di depressione (27).

La depressione viene diagnosticata nelle persone con SD confrontando i sintomi ed i criteri autoreferenziali del DSM-IV e le segnalazioni dei caregivers. Il primo criterio è l’umore, accertato solitamente da quello che riferisce il paziente, anche se gli altri possono notare un umore depresso o triste. Inoltre, sono inclusi nei criteri autoreferenziali l’interesse o il piacere per varie attività, i vissuti di indegnità, la difficile concentrazione ed i pensieri di morte. Le persone con RM non esprimono bene simili percezioni interne. I caregivers possono, invece, segnalare attendibilmente i disturbi del sonno e dell’appetito. Le modifiche dell’appetito sono notate solitamente dai caregivers come modifiche del comportamento alimentare come variazione dei tempi dei pasti e/o perdita o aumento significativo del peso. I disturbi del sonno vengono rilevati soltanto se la persona si lamenta o se vengono notati e riferiti dai care-givers. Spesso c’è un notevole deterioramento nella cura personale che, a volte, determina da solo il rinvio agli specialisti della salute mentale. Inoltre si possono osservare ritiro e scarso eloquio, capricci, comportamento aggressivo o incontinenza (6).

Nel valutare l’eventualità di una sindrome depressiva nella popolazione con RM occorre tener presente la possibilità di sintomi “atipici”. Questi sono prevalentemente di tipo neurovegetativo e comportamentale e possono rendere difficoltosa la diagnosi. Destano particolare interesse l’irritabilità e l’aggressività, sia etero che autodiretta.

I criteri clinici orientativi per la diagnosi di depressione in persone con RM sono rappresentati, oltre che da una familiarità per disturbi dell’umore, da: presenza di sintomi vegetativi come disturbi dell’alimentazione e del sonno, perdita di appetito o di peso, incontinenza urinaria e/o fecale, stipsi, astenia; agitazione psicomotoria con crisi di auto-eteroaggressività, apatia e rallentamento che può giungere alla catatonia; espressività mimica di uno stato depressivo come ipomimia, pianto; regressione nelle acquisizioni pregresse sul piano dell’autonomia personale; tendenza al ritiro o al disinteresse sociale; comportamenti molto infantili.

Gli individui che soffrono di depressione possono simultaneamente avere un altro disturbo psichiatrico. Nella letteratura viene segnalata una comorbidità significativa di depressione e disturbi d’ansia. I sintomi d’ansia sono comuni e connessi con i sintomi depressivi nelle persone con RM (27).

La depressione può essere complicata, inoltre, dalla malattia di Alzheimer. Tutte le persone con SD sospette di demenza dovrebbero essere valutate per la depressione e per quelle al di sotto di 35 anni, la depressione dovrebbe essere il fuoco primario anziché la demenza (poiché la demenza nelle persone con SD sotto 35 anni è rara). Per le persone più anziane con SD, la depressione può coesistere con la malattia di Alzheimer. In questo caso, un trattamento tempestivo della depressione può conservare il funzionamento per un periodo di tempo, sebbene il declino cognitivo non possa essere evitato (6). I seguenti sintomi possono essere riscontrati sia nella depressione che nella DAT: perdita di abilità adattive, l’inversione del ritmo sonno-veglia, cambiamenti dell’appetito, apatia, umore instabile, irritabilità, aggressività, agitazione o rallentamento psicomotorio, perdita di memoria. La DAT è particolarmente difficile da escludere perché non esiste una prova definitiva per questo disturbo e la diagnosi è di esclusione (28). La diagnosi differenziale della depressione e della DAT si può fare prestando attenzione alla modalità di manifestazione dei sintomi. La depressione tende ad avere un andamento fluttuante, alternante nel tempo ed il trattamento determina il miglioramento e un ritorno eventuale ai livelli premorbosi di funzionamento. i sintomi della DAT tendono ad oscillare negli stadi precoci, ma porteranno col passare del tempo a un progressivo ed irreversibile declino (29-31).

La perdita di un amico, un membro della famiglia o un’altra persona significativa o un cambio di lavoro, della scuola o dell’abitazione possono essere un trigger per la depressione, ma devono essere distinte dalla stessa. inoltre, varie condizioni mediche possono essere associate con la depressione (32). La diagnosi può essere complicata dalle condizioni mediche quali ipotiroidismo (molto frequente nelle persone con SD), patologie allergiche, infezioni, ipovitaminosi B12 e apnea notturna (30) che possono avere sintomi che imitano la depressione.

Le limitazioni espressive ed adattative di questa popolazione possono aumentare anche la probabilità di diagnosi errate, specialmente di un disturbo psicotico, perché i cambiamenti del comportamento possono sembrare bizzarri o inquietanti ai caregivers con scarsa esperienza con le persone con RM (33). Molti autori hanno sottolineato, per questo motivo, il rischio di una diagnosi affrettata di disturbo psicotico, quando altri disturbi non possono essere esclusi (quale la depressione).

DSM-iv autorizza la diagnosi di disturbo depressivo piuttosto che di disturbo psicotico nonostante la presenza di sintomi similpsicotici (come soliloquio, perdita di abilità e ritiro estremo), quando i sintomi depressivi sono predominanti, precedono e continuano dopo la cessazione dei sintomi psicotici (33). 

I disturbi bipolari sono rari in soggetti con RM in età evolutiva, mentre diventano più frequenti con l’avanzare dell’età. Le stime epidemiologiche oscillano dall’1,2% al 4,8%. Oltre a quadri tipici sono state frequentemente descritte forme cosiddette atipiche, a rapida ciclicità, che rispondono meno ai classici farmaci stabilizzanti dell’umore (antiepilettici, litio). La presenza di stati misti, con scarsa distinzione tra stati depressivi e maniacali, è generalmente associata ad una maggiore gravità clinica ed a una maggiore resistenza alla terapia farmacologica.
Le manifestazioni maniacali nei soggetti bipolari sono spesso difficilmente riconoscibili.
Generalmente il segno prevalente è quello di uno stato di eccitazione e di irritabilità, mentre più rare sono le manifestazioni di franca euforia; lo stato di eccitazione può sfociare in manifestazioni di etero ma anche di autoaggressività. Si osserva un aumento dell’utilizzazione del
canale verbale, con verbalizzazioni poco coerenti che solo nei soggetti meno compromessi cognitivamente assumono caratteristiche di megalomania o grandiosità, non raramente di tipo delirante poco strutturato. Costante è l’ulteriore perdita di freni inibitori, in particolare nelle pulsioni sessuali che vengono più spesso agite con masturbazione esplicita o molestie. Frequenti sono anche i disturbi dell’alimentazione ed ancor più del sonno (34).

b. Disturbi psicotici

La schizofrenia e le psicosi sono considerate meno comuni nelle persone con SD. I tassi di prevalenza della schizofrenia nelle persone con disabilità intellettive sono di 3-6% (rispetto a 0,5-0,8% per la popolazione generale). Ci sono considerevoli difficoltà nella diagnosi della schizofrenia in adulti con SD, poiché rilevare delle anomalie di pensiero e delle esperienze psicotiche nelle persone con RM severo e/o con abilità verbali limitate è difficile (35) ed i criteri diagnostici standard non possono essere applicati. Appare ancora discussa la possibilità che si possa parlare di disturbi schizofrenici in soggetti con QI al di sotto di 50 e senza un sufficiente livello di sviluppo linguistico. Infatti, gran parte dei criteri diagnostici per la schizofrenia (disturbi del pensiero, deliri, allucinazioni, disturbi dell’affettività, ecc.) sono basati sul canale linguistico (12).

Comportamento bizzarro o psicotico con allucinazioni e deliri sono stati riscontrati in situazioni di stress in vari studi. Quando emerge un quadro clinico di questo tipo si può supporre in modo errato che si tratti di una psicosi primaria (6). Il soliloquio (parlare con sé stesso) in adulti con SD, per esempio, situazione comune specialmente nelle situazioni stressanti, è solitamente un atteggiamento correlato all’età mentale ed è stato considerato, a volte, in modo errato, un comportamento allucinatorio (32). Alcuni autori hanno coniato il termine “psychotoform” per descrivere i comportamenti che possono sembrare psicotici, ma, di fatto, sono indicativi di un disturbo dell’umore, sottolineando la necessità di distinguere fra i due disturbi prima di iniziare una terapia farmacologia (36). I disturbi della serie psicotica sono frequentemente associati a disturbi della serie deficitaria, tanto che, soprattutto nelle forme più gravi, può essere difficile delineare i rapporti patogenetici; per questo motivo la direzione “psicosi ad espressione deficitaria” o quella di “ritardo mentale a versante psicotico” hanno un valore psicopatologico descrittivo più che di categoria diagnostica. La commistione di elementi autistici e deficitari incrementa il ricorso a scariche motorie e comportamentali di angosce profonde, specie di frammentazione, con stereotipie, auto-eteroaggressività, masturbazione compulsiva.

Un episodio psicotico, attivato da eventi vitali fisiologici quali la crisi adolescenziale, può portare a quadri clinici caratterizzati o da manifestazioni più floride, con confusione mentale, produzioni deliranti o allucinatorie non strutturate, oppure da manifestazioni negative, con chiusura relazionale massiva, catatonia, mutismo. La prognosi per queste forme è nettamente peggiore e soprattutto meno reversibile rispetto alle poussées psicotiche degli adolescenti normodotati, con esiti spesso gravemente invalidanti sul piano del funzionamento mentale e dell’adattamento sociale (34).

Dal punto di vista clinico, tutte le forme di schizofrenia possono essere riscontrate in soggetti ritardati, spesso con tratti clinici misti (disorganizzati, paranoidi, catatonici), che inducono ad usare la diagnosi di psicosi atipica (DSM-IV). Frequente è il disturbo dell’affettività, sotto forma di inaridimento affettivo o fatuità. Ad esso si associa frequentemente un’alterazione del pensiero, evidente in particolare sul piano delle produzioni verbali (ecolalia, verbigerazione, neologismi, perseverazioni). Quando presenti, le idee di influenzamento o di riferimento (ad esempio pensiero trasparente o influenzato da persone o oggetti esterni) sono particolarmente suggestive di un disturbo schizofrenico. Le produzioni deliranti sono tipicamente poco coerenti, frammentate, ingenue. Più frequenti sono i disturbi allucinatori. Nelle forme schizofreniche di tipo catatonico, ma non solo, sono evidenti i disturbi della motilità, in particolare eccitazione psicomotoria o stupore.

Le forme disorganizzate e catatoniche coinvolgono i soggetti più giovani, potendo insorgere nella seconda o terza decade di vita. Ad insorgenza più tardiva sono, invece, le forme paranoidi. Le forme più precoci sono generalmente quelle a decorso più grave e con minore risposta ai trattamenti farmacologici.

La diagnosi differenziale può essere particolarmente complessa, in particolare nei confronti degli stati affettivi misti e, soprattutto, nei confronti di reazioni acute ad eventi stressanti acuti, che possono assumere anche un carattere simildelirante. In quest’ultimo caso le manifestazioni cliniche tendono a ridursi o a scomparire dopo la cessazione dell’evento stressante (12).

c. Disturbi d'ansia

I disturbi d’ansia sono diagnosticati nei soggetti ritardati piuttosto raramente, ma esiste un certo consenso sul fatto che questo sia riferibile prevalentemente alle difficoltà di diagnosi. Nonostante gli studi nella popolazione con RM abbiano segnalato, complessivamente, un aumento dei tassi di prevalenza, i disturbi d’ansia sembrano essere rari nella popolazione con SD (24).

Talora episodi acuti di aggressività, rabbia, fuga, pianto, ecc. possono, in soggetti con SD e RM, rappresentare l’equivalente di crisi d’ansia acute o veri e propri attacchi di panico. Soltanto i soggetti meno compromessi cognitivamente sono in grado di verbalizzare le condizioni d’ansia in modo da consentire una più agevole diagnosi. In altre situazioni invece la diagnosi può essere soltanto presuntiva. Un fondamentale ausilio diagnostico è rappresentato dalla presenza di una familiarità positiva per disturbi d’ansia.

Altri disturbi d’ansia, di tipo fobico o ossessivo, sono di osservazione corrente, anche se non è chiaro se la loro incidenza sia superiore rispetto ai soggetti normodotati. Le manifestazioni fobiche sono più spesso bizzarre e mutevoli, risentono delle influenze ambientali, sono più spesso caratterizzate da coloriture di tipo persecutorio e rispetto ai soggetti normodotati è molto più rara l’autocritica.

Le idee ossessive sono nei soggetti ritardati relativamente rare, mentre relativamente frequenti sono i rituali compulsivi. Solo in parte essi influenzano in modo rilevante le capacità di adattamento. Più spesso essi appaiono piuttosto come modalità relativamente evolute di controllo dell’ansia ed in quanto tali possono essere preservati. Manca spesso in tali manifestazioni quella componente di lotta interiore nei confronti del rituale o dell’idea ossessiva che è invece frequente nei soggetti normodotati.

Può essere difficile distinguere i disturbi compulsivi dalle stereotipie nelle persone con RM e questo aspetto deve essere preso in considerazione prima che si faccia una diagnosi di disturbo ossessivo-compulsivo (OCD). L’essere eccessivamente ordinato è il tipo più comune di azione/ossessione, con tocchi ripetuti e pulizie ritualistiche. I pensieri ripetitivi, ossessivi possono riscontrarsi nelle persone con SD, ma è difficile diagnosticarli. Gli atti ossessivo-compulsivi sono verosimilmente più facili da rilevare (37).

“Obsessional slowness” è stata descritta originariamente da S. Rachman nel 1974. Si tratta di pazienti con SD con OCD che passano delle ore per svolgere le attività della vita quotidiana come il bagno, la vestizione, la preparazione del cibo, ecc. Anche se si tratta di comportamenti considerati ritualistici, la lentezza è il problema prominente per questi pazienti ed in alcuni casi questo tipo di lentezza è stato riscontrato anche in assenza di comportamenti ritualistici. “Obsessional slowness” è considerata una variante severa di OCD. Anche se la letteratura riporta pochi casi, vi potrebbe essere un tasso elevato nelle persone con SD (38).

d. Disturbi del comportamento

I disturbi comportamentali possono inserirsi in un disturbo psicopatologico più ampio (ad esempio un disturbo della personalità, un disturbo dell’umore, un disturbo psicotico), oppure possono presentarsi in forma isolata. In tali casi essi hanno talora un significato comunicativo o in ogni caso possono essere compresi nell’ambito del contesto di vita del soggetto (ad esempio rappresentare una risposta ad un’ipo o ad un’iperstimolazione, o una modalità appresa per ottenere gratificazioni, o una reazione a pregresse esperienze di abuso). In altre situazioni invece tali disturbi comportamentali rappresentano la risposta del soggetto ad una malattia fisica, come un’affezione dolorosa di varia natura (malattia da reflusso gastroesofageo, l’ascesso dentale, la sinusite, l’otite, le fratture, il glaucoma), oppure l’espressione di una patologia organica quale un ipertiroidismo o un disturbo epilettico, o anche la conseguenza dell’assunzione di sostanze esterne (ad esempio caffeina). Tra i comportamenti atipici che più frequentemente si riscontrano in soggetti con RM possiamo ricordare i disturbi della sfera oroalimentare quali la pica, la ruminazione ed il vomito, i movimenti stereotipati, i comportamenti eteroaggressivi e, soprattutto, i comportamenti autoaggressivi (self-injurious behaviors, SIB).

I comportamenti autoaggressivi sono presenti in una percentuale di soggetti con RM che oscilla tra 10 e 15%; la frequenza va aumentando al ridursi del QI. In alcuni casi essi rappresentano un rischio per l’incolumità fisica del soggetto, ma in ogni caso costituiscono un importante elemento di distorsione nei rapporti tra il soggetto ritardato e l’ambiente.

Un disturbo autolesivo può far parte di un disturbo psicopatologico più ampio, come una psicosi o un disturbo d’ansia. In particolare esso può esprimere, in soggetti con grave disturbo cognitivo, uno stato depressivo altrimenti non evidente. Esso può assumere anche significato di autostimolazione, oppure il tentativo di porre una sorta di schermo sensoriale agli stimoli del mondo esterno. Recenti studi sottolineano il ruolo di una ridotta capacità, da parte del soggetto ritardato, di fronteggiare in modo adeguato l’azione di stressors esterni, sia dal punto di vista psicologico che da quello fisiologico; la risposta autoaggressiva rappresenterebbe un possibile epifenomeno di questa incapacità/impossibilità di reazione (è da notare che condotte autolesive possono essere riscontrate in bambini normodotati cronicamente abusati, in soggetti imprigionati, in animali maltrattati in cattività, tutte situazioni nelle quali almeno apparentemente l’evento stressante sembra non evitabile). Particolare interesse rivestono gli studi recenti sulla biochimica cerebrale nei soggetti ritardati con condotte autoaggressive, che hanno chiamato in causa di volta in volta il sistema dopaminergico, quello serotoninergico, l’acido idrossi-indolacetico (5-HIAA), quello degli oppiati interni (endorfine). Queste interpretazioni biochimiche rappresentano il razionale per gli orientamenti terapeutici farmacologici correnti (12).

e. Demenza

La demenza è una patologia a confine tra neurologia, psichiatria e geriatria che presenta un interesse particolare per il fatto che si presta ad una diagnosi differenziale molto difficile nelle persone con SD.

Gli adulti con il SD sono molto più predisposti a sviluppare la DAT rispetto alla popolazione generale. Negli adulti con SD, i cambiamenti neuropatologici tipici della malattia di Alzheimer si sviluppano solitamente entro la quinta decade di vita e negli ultimi 15-20 anni si è verificato, in molte nazioni, un sostanziale aumento dell’età mediana di morte nelle persone con SD (39). La malattia di Alzheimer in persone con SD ha tassi di prevalenza che variano da 0-10% nella fascia di età 30-39 anni a 30-75% nella fascia di età 60-69 anni (40). Il tasso di prevalenza della demenza di tutti tipi nella popolazione generale varia tra 0,6-21%, secondo l’età del campione studiato. L’individuazione della DAT nella popolazione con SD è difficile, conducendo ad una variazione più larga nei tassi di 15-45%. L’età media dell’inizio della DAT è di 50-55 anni, con esordio possibile anche prima dei 30 anni (41).

Tipicamente, le persone con SD si presenteranno per la valutazione di demenza a causa di un cambiamento nel comportamento o di una perdita funzionale (1). I sintomi di demenza in persone con SD comprendono un declino dell’autonomia funzionale, cambiamenti psicologici quali la depressione, cambiamenti del comportamento, disturbi ossessivo-compulsivi e del sonno, perdita di memoria, atassia, segni neurologici focali, convulsioni, disturbi dell’eloquio ed incontinenza urinaria e fecale. Purtroppo, altre cause per gli stessi sintomi possono essere trascurate e la malattia di Alzheimer sovradiagnosticata (42). I segni ed i sintomi di DAT in adulti con SD possono essere difficili da diagnosticare a causa del danno mentale di fondo. Diverso della popolazione generale, nelle persone con disabilità intellettiva non ci sono forme sistematiche, approvate, standardizzate di valutazione. Le valutazioni quantitative delle funzioni cognitive quali la memoria e la curva dell’attenzione si sono dimostrate inattendibili. Le valutazioni di altre funzioni intellettive (per esempio eloquio, comprensione e funzione visuo-spaziale) rimangono elusive.

Come nella popolazione generale, la DAT in persone con SD è una diagnosi di esclusione. La valutazione per possibile DAT in questo gruppo comprende la valutazione per depressione o delirium, effetti collaterali dei farmaci, infezioni, alcolismo e malattie sistematiche (43). Inoltre, in ogni persona adulta con SD nella quale venga presa in considerazione la diagnosi di malattia di Alzheimer, dovrebbe essere effettuata una valutazione medica completa per individuare le patologie tiroidee (1) per la loro alta frequenza in questi soggetti e che possono sia coesistere sia mimare un quadro clinico di demenza o di depressione. La depressione e la malattia di Alzheimer devono essere prese in considerazione per una diagnosi differenziale per due motivi. In primo luogo, la demenza e la depressione sono riscontrabili ugualmente negli anziani. Inoltre, la pseudodemenza è un fenomeno che può portare ad un’errata diagnosi di demenza in caso di una depressione trattabile. Secondariamente, gli individui con SD sono notti per avere un’alta incidenza dell’esordio della malattia di Alzheimer nella quarta decade di vita, oltre ad avere un invecchiamento prematuro generalizzato (44).

Altri disturbi psichiatrici riscontrati nella popolazione generale, quali il disturbo somatoforme, abuso di droga e disturbi di personalità sono stati descritti anche nelle persone con SD. Tuttavia, esiste un’evidenza limitata per una predisposizione aumentata a sviluppare questi disturbi. Sono stati rapportati alcuni casi di disturbi più rari come le parafilie ed i disturbi alimentari.

Alcune patologie frequentemente associate alla SD possono avere manifestazioni di interesse psichiatrico. Le apnee ostruttive nel sonno vengono spesso osservate in persone con SD, probabilmente per l’ipoplasia della regione mediana del volto. L’intervento chirurgico per evitare l’ipossiemia e un possibile cuore polmonare cronico non sempre è risolutivo. Una terapia con l’ossigeno sotto pressione durante il sonno può essere indicata, ma non è facilmente tollerata (45). In adulti con SD, l’apnea nel sonno si può manifestare come irritabilità, depressione, ansia ed altri cambiamenti di comportamento.

L’ipotiroidismo si presenta in 10-40% delle persone con SD (46-47). Poiché molti dei segni di ipotiroidismo possono essere confusi con le caratteristiche di SD, la diagnosi clinica di ipotiroidismo è difficile (48). Inoltre, l’ipotiroidismo non diagnosticato può contribuire a demenza o essere mal diagnosticato come demenza o depressione.

La prevalenza di disturbi epilettici e la vulnerabilità epilettogena sono molto elevate nella popolazione con RM. Inoltre, è noto che numerosi psicofarmaci abbassano la soglia epilettogena. Il rischio di induzione, scompenso o riesacerbazione sintomatologica deve essere scongiurato da un’attenta valutazione neurologica preliminare. Inoltre, diverse molecole sono utilizzate sia come antiepilettici sia nella terapia di patologie psichiatriche e, per ulteriore complicazione, l’epilessia ed i disturbi psichiatrici possono coesistere.

Nel processo di formulazione diagnostica è necessario considerare fattori biologici, psicologici, sociali e di sviluppo, che possono giocare un ruolo nell’esordio e nel mantenimento della sintomatologia psichiatrica. Spesso questi fattori necessitano di un intervento terapeutico complesso, farmacologico, psicologico, comportamentale o di tipo non convenzionale, in un approccio integrato (49).

D. Trattamento farmacologico dei disturbi psichiatrici
NELLA SINDROME DI DOWN

L’utilizzo degli psicofarmaci nella SD implica un preciso ruolo dello psichiatra. Egli deve contribuire all’ottimizzazione della qualità di vita, all’identificazione e alla gestione dei disturbi mentali in questi soggetti. In tal senso, gli psichiatri devono fornire una valutazione generale, formulare diagnosi, impostare le modalità d’intervento terapeutico, sia farmacologico sia, di concerto con l’equipe multidisciplinare, non farmacologico, eseguire verifiche di sicurezza delle farmacoterapie e valutazioni d’esito degli interventi terapeutici. Parecchi studi suggeriscono, però, che i pazienti con ritardo mentale sono, ancora, eccessivamente trattati con antipsicotici, con conseguente sedazione, ritiro sociale e la perdita di più aree di autonomia.

Le indicazioni per l’uso di psicofarmaci nelle malattie mentali in persone con SD e RM sono le stesse di quelle per il loro uso nella popolazione generale, però, con alcuni accorgimenti importanti (50). La scelta dei farmaci e la loro somministrazione dipende dalla diagnosi, dalla gravità della malattia e dalla “sapienza” ed esperienza del medico circa il range di farmaci disponibili. La regola d’oro è che il beneficio deve essere di maggior peso rispetto agli effetti collaterali (51).

Oltre a quella del sistema nervoso centrale, le persone con SD e RM presentano spesso una compromissione anatomica o funzionale di altri organi, apparati o sistemi che determina una vulnerabilità somatica e una sensibilità ai farmaci psicoattivi maggiori rispetto alla popolazione generale (4). Gli psicofarmaci dovrebbero comunque essere prescritti con precauzione, partendo da basse dosi, aumentando gradualmente se necessario. È indispensabile un attento monitoraggio, dato che alcune persone con RM, in particolare con RM grave, spesso non riconoscono o non riferiscono gli effetti collaterali.

Diversi quesiti sono ancora aperti, relativi ad esempio alla sensibilità dei soggetti con RM a specifiche categorie di psicofarmaci, l’incidenza di effetti collaterali (che sembra maggiore), l’esistenza di fattori predittivi per l’efficacia clinica e gli effetti collaterali (ad esempio la presenza di lesioni cerebrali, di anomalie neurologiche, di alterazioni EEG), i tempi di risposta (probabilmente più lunghi rispetto ai soggetti normodotati), la tendenza all’assuefazione o alle reazioni da sospensione. È inoltre da ricordare come spesso vengano trascurate le implicazioni psicodinamiche della prescrizione psicofarmacologica, che influenzano direttamente la compliance del soggetto e della sua famiglia (51).

un’altra premessa generale riguarda i problemi di compliance farmacologica che rappresenta un ostacolo frequente all’attuazione e all’efficacia della terapia farmacologica. A tal proposito si consiglia di valutare attentamente il contesto biologico, psicologico e ambientale e, parallelamente, di valutare l’opportunità di utilizzare somministrazioni orodispersibili, in soluzione o parenterali. Data la sussistenza di disabilità più o meno gravi anche rispetto alla cura di se stessi, la valutazione della compliance farmacologica di una persona con SD deve essere rivolta non solo alla persona stessa ma a tutto il suo ambiente di vita e di assistenza.

L’intervento farmacologico deve avere nella SD indicazioni specifiche, anche allo scopo di non alimentare, come è avvenuto nel passato, illusioni di guarigioni o miglioramenti clamorosi, che si sono poi trasformate in cocenti delusioni. La maggior parte degli interventi è stata spesso motivata da finalità di contenimento comportamentale piuttosto che a seguito di una diagnosi psichiatrica, spesso con terapie croniche e ricche di effetti indesiderati.

Sono da considerare indicativi di una svolta positiva la maggiore consapevolezza sulla psicopatologia del RM, il progressivo superamento del mascheramento diagnostico, la disponibilità di strumenti di valutazione più accurati, che consentono interventi più mirati e la disponibilità di molecole con efficacia ma soprattutto tollerabilità superiore a quelle precedenti. Sotto questo punto di vista i nuovi antipsicotici atipici, che stanno sostituendo i tradizionali neurolettici, gli antidepressivi-antiansia SSRI e post-SSRI che stanno sostituendo i triciclici ed i nuovi stabilizzatori dell’umore stanno aprendo nuove prospettive terapeutiche. Il passaggio agli antipsicotici atipici appare nel lungo termine non solo vantaggioso sul piano clinico, ma anche economico. I nuovi antipsicotici hanno un’incidenza più bassa di effetti collaterali come l’acatisia e la discinesia tardiva ma possono predisporre i pazienti all’obesità ed alla sindrome metabolica.

Gli studi sugli effetti collaterali sono particolarmente scarsi, non solo per la difficoltà di ottenere descrizioni da parte dei diretti interessati, ma anche per la difficoltà di discriminare tra effetti negativi della farmacoterapia e sintomi riferibili al RM (es. stereotipie motorie, agitazione comportamentale). Gli effetti indesiderati sono riportati come più frequenti in particolare in presenza di segni di danno organico cerebrale (segni neurologici, alterazioni EEG o bioimmagini). È noto ad esempio che il RM, in particolare se con lesioni cerebrali, è uno dei fattori che aumenta il rischio di effetti extrapiramidali (in particolare l’acatisia) in trattamenti con neurolettici tradizionali e in certa misura anche con gli antipsicotici atipici. Sono frequenti (fino al 25% dei soggetti trattati) gli effetti collaterali di tipo comportamentale, spesso in senso disinibente, in trattamenti con benzodiazepine che sono spesso misconosciuti e confusi con un peggioramento della sintomatologia psichiatrica. Probabilmente anche il rischio di convulsioni è maggiore in trattamenti con triciclici, in particolare in soggetti con lesioni cerebrali e alterazioni EEG. Tale frequenza è resa più elevata dalla tendenza a terapie croniche, soprattutto in soggetti istituzionalizzati, senza fasi di verifica, oppure in politerapie incongrue e ingiustificate che amplificano il rischio di effetti indesiderati (34).

L’opportunità di un controllo particolarmente accurato della farmacoterapia dei soggetti con RM è dimostrata dal fatto che nel 1997 la Health Care Financing Administration negli Stati Uniti ha definito delle linee guida per l’uso di psicofarmaci in questi soggetti che mettono in evidenza, ad esempio in presenza di disturbi comportamentali, la necessità di escludere altre cause, di caratterizzare bene la sintomatologia, di ricorrere primariamente agli interventi meno intrusivi e, nel caso la farmacoterapia sia ritenuta opportuna, che questa sia parte di un progetto riabilitativo complessivo, che non comprometta il funzionamento del soggetto, che sia monitorata nei suoi effetti indesiderati, con periodiche verifiche circa la sua efficacia e reale necessità (52).

a. Disturbi dell'umore

La maggior parte degli studi non recenti sull’uso di antidepressivi in soggetti con RM si riferiscono ai triciclici; le modalità di somministrazione, così come i criteri di scelta (amitriptilina nelle forme con maggiore componente d’ansia o agitazione, imipramina nelle forme con ipotimia o rallentamento psicomotorio) sono analoghe a quelle dei soggetti normodotati. L’effetto clinico può essere evidente solo dopo una latenza più lunga rispetto ai normodotati. Viene descritta una maggiore incidenza di effetti collaterali, in particolare di manifestazioni convulsive legate all’effetto di abbassamento della soglia convulsiva, più frequenti in soggetti con compromissione neurologica evidente. Sono possibili anche l’induzione della mania, la sedazione, cardiotossicità, effetti autonomici ed anticolinergici e cognitivi secondari alla somministrazione di triciclici. Nonostante ciò, i farmaci antidepressivi triciclici possono essere utilizzati, ma con un aggiustamento della terapia antiepilettica nel caso di fenomeni critici (e non di anomalie EEG).

Un interesse particolare rivestono i farmaci che agiscono in modo specifico sulla ricaptazione della serotonina (fluoxetina, paroxetina, fluvoxamina, sertralina) nelle manifestazioni depressive (ma anche in quelle ossessivo-compulsive ed auto-eteroaggressive) (51). Gli inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina (SSRI) sono preferibili agli antidepressivi triciclici nel trattamento della depressione in questo gruppo di pazienti per la minore incidenza di effetti secondari.

Nel RM gli SSRI rappresentano il trattamento di scelta per DOC, depressione, disturbi d’ansia per sicurezza, tollerabilità ed ampio spettro d’azione. Non sono disponibili dati sugli antidepressivi post-SSRI in RM (34). Possibili obiettivi clinici dei serotoninergici nel RM sono anche i fenomeni ripetitivi (simil ossessivo-compulsivi), chiusura relazionale, disinibizione, impulsività-aggressività, disregolazione emotiva.

I farmaci antiepilettici (carbamazepina, valproato, più recentemente lamotrigina), in alternativa o in associazione al litio, rappresentano il trattamento elettivo nei disturbi bipolari. Particolare cautela deve essere prestata al litio, in quanto nei soggetti ritardati con lesioni cerebrali accertate si può riscontrare l’insorgenza di stati confusionali e di manifestazioni convulsive. Nelle forme a rapida ciclicità può essere utilizzata l’associazione tra farmaci antiepilettici (in particolare valproato) e litio. Cautela è raccomandata nell’associazione litio-neurolettici ad alte dosi (soprattutto aloperidolo). Le forme miste o a cicli rapidi (che hanno un’alta frequenza) sembrano meno sensibili al litio e beneficiano della maggiore efficacia degli antiepilettici. Il litio è efficace anche su irritabilità/aggressività ma c’è un maggior rischio di effetti collaterali nel RM (aumento di peso, ipotiroidismo, tremore, acne, polidipsia/poliuria, anomalie ECG, astenia).

Nei non responders a stabilizzatori (litio, valproato) in mono o politerapia e/o in presenza di aggressività e/o in presenza di sintomi psicotici è consigliato l’uso di un antipsicotico atipico. Nelle forme acute, olanzapina, più rapidamente titolabile, può essere preferibile al risperidone; in caso di aumento di peso l’aripiprazolo o quetiapina; nelle forme farmaco resistenti clozapina.

Sono state descritte delle particolarità dei serotoninergici nel RM (34):

Fluoxetina: minore rischio di sindrome da sospensione; effetti su sintomi depressivi, condotte autolesive, irritabilità; rischio di attivazione comportamentale, di aggressività, di sintomi ipomaniacali; superiore al placebo su fenomeni ripetitivi ma non su linguaggio ed interazione sociale; buona tollerabilità.

Fluvoxamina: superiorità sul placebo in aggressività, ripetitività, competenze relazionali. Sertralina: riduzione dei sintomi d’ansia legati ai cambiamenti; buona tollerabilità a bassi dosaggi (25-50 mg) e attivazione comportamentale a dosaggio più alto (75 mg).

Citalopram: usato prevalentemente su sintomi affettivi (ansia, umore); buona tollerabilità. Venlafaxina, Mirtazapina: l’azione noradrenergica può migliorare i sintomi iperattivi ed inattentivi spesso associati alla sintomatologia autistica; effetti positivi su comportamenti ripetitivi e interessi ristretti, ma anche iperattività ed inattenzione; miglioramento in auto-eteroaggressività, irritabilità, iperattività, ansia e depressione, ma non su deficit sociali.

b. Disturbi psicotici

I neurolettici sono stati per lungo tempo i farmaci di scelta nel trattamento dei disturbi psicotici e della schizofrenia. I farmaci usati più frequente in passato nel ritardo mentale sono la clorpromazina (se si ricerca un effetto sedativo), la tioridazina (che ha una minore incidenza di effetti extrapiramidali ed influenza meno la soglia epilettogena) e l’aloperidolo (meno sedativo, ma più efficace sui fenomeni produttivi deliranti o allucinatori). L’aloperidolo a basse dosi (0.5-4 mg/die) ridurrebbe l’instabilità, le stereotipie, il ritiro sociale. Minori evidenze sono disponibili per i cosiddetti farmaci disinibenti (pimozide, levosulpiride, pipamperone). La clozapina, un neurolettico atipico attivo sui recettori della serotonina e sui recettori dopaminergici D1 e D4, è stata usata in soggetti ritardati con disturbi psicotici, con effetti favorevoli sui sintomi positivi e negativi.

Viene riportata una maggiore frequenza di effetti collaterali extrapiramidali nei soggetti con RM (in particolare con i butirrofenoni o le fenotiazine piperaziniche ed i preparati depot). Il 20-30% dei soggetti ritardati sotto terapia neurolettica svilupperebbe una discinesia tardiva. Il rischio di effetti extrapiramidali da neurolettici è più alto soprattutto con dosi elevate, con rapidi incrementi-riduzioni di dosaggio, per trattamenti inutilmente lunghi, in politerapie, in RM grave e/o con lesioni cerebrali. I farmaci anticolinergici per prevenire/curare gli effetti collaterali extrapiramidali peggiorano le prestazioni cognitive (34).

Sono indicazioni di antipsicotici: disturbi psicotici e schizofrenia, disturbi pervasivi dello sviluppo (autismo), disturbo bipolare, disturbi dirompenti del comportamento, tic e disturbo di Gilles de la Tourette, disturbo ossessivo-compulsivo farmacoresistente, disturbi della personalità (borderline, schizotipico) (34).

Gli antipsicotici atipici, per lo spettro di azione ampio, ma soprattutto per il migliore profilo di tollerabilità nel lungo termine, possono rappresentare dei validi strumenti terapeutici. Diversi studi su soggetti adulti, compreso uno studio controllato sul risperidone, hanno indicato come gli antipsicotici atipici siano efficaci nel controllo dei disturbi comportamentali nel RM (4). Nei disturbi psicotici in ritardo mentale olanzapina e risperidone sono i farmaci di prima scelta, preferibili ai tipici per efficacia e tollerabilità (34).

Sono state descritte delle particolarità anche per gli antipsicotici atipici nel RM (34): Risperidone: il più usato e studiato atipico nel RM; si consiglia di iniziare con bassi dosaggi ed incrementare gradualmente fino a massimo 3-4 mg/die; con alte dosi gli effetti extrapiramidali sono simili ai neurolettici; è importante il controllo del peso e della funzionalità epatica; talora effetto attivante; la sedazione è inferiore a olanzapina e clozapina; talora aumento di agitazione ed aggressività; effetti ematologici e epilettogeni non diversi da neurolettici. Il risperidone crea maggiori problemi nel sesso femminile (iperprolattinemia, amenorrea, ginecomastia, galattorrea) che possono essere trattate con bromocriptina e cabergolina.

Olanzapina: effetto positivo sui comportamenti aggressivi, irritabilità, umore instabile; dose massima consigliata: 20 mg/die (anche monodose serale). L’olanzapina può essere aumentata in modo più rapido in caso di urgenze, ha maggiore azione sedativa, determina più raramente iperprolattinemia ed effetti extrapiramidali ma può provocare aumento dell’appetito e del peso corporeo e alterazioni del metabolismo glucidico.
Clozapina: per la sua difficile gestione è indicata nelle forme gravi, resistenti, con sintomi negativi prevalenti, comportamento distruttivo; indicata nei disturbi psicotici e schizofrenia, disturbo bipolare (fase maniacale), disturbi gravi della personalità, disturbi gravi del comportamento auto ed eteroaggressivo. È il primo atipico, ancora il più efficace e potente. Dosaggio: 100-400 mg somministrato in 2-3 volte al giorno; dopo la fase acuta anche monodose serale. Sopra 400 mg esiste un elevato rischio di convulsioni (dosedipendente). 
Fattori di rischio per l’effetto epilettogeno sono le lesioni cerebrali, familiarità per epilessia, alterazioni EEG antecedenti. Si riscontrano frequenti alterazioni EEG dopo clozapina, non predittive di rischio di crisi quindi è necessario effettuare EEG preliminare ed EEG periodici. Non provoca effetti extrapiramidali o iperprolattinemia ed è efficace nella discinesia tardiva. L’effetto collaterale più grave è l’agranulocitosi (neutrofili < 500/mmc) in circa 1% dei casi, effetto non dose dipendente. Sono obbligatori i controlli ematologici settimanali per i primi tre mesi, poi mensili; se GB scendono sotto 3000/mmc è necessario sospendere il farmaco.

Quetiapina: non ci sono sufficienti dati disponibili in soggetti con RM. Ha un profilo di effetti collaterali più favorevole (minore aumento dell’appetito e del peso). Ha minore potenza ed efficacia degli altri atipici e rappresenta il farmaco di scelta per disturbi meno intensi o quando gli altri antipsicotici atipici sono stati sospesi per effetti indesiderati; dosaggio di 50-800 mg/die.

Aripiprazolo: è un agonista parziale della dopamina con un profilo di effetti collaterali favorevole (scarsa azione sedativa, scarso effetto sull’appetito). Viene usato nel trattamento dell’aggressività e dell’agitazione.

c. Disturbi d'ansia

Attualmente la terapia farmacologica nei disturbi d’ansia non si differenzia in modo rilevante da quella dei soggetti normodotati. Le benzodiazepine, e più recentemente il buspi-rone, i triciclici (imipramina, clomipramina), gli SSRI (paroxetina, fluoxetina, fluvoxamina, sertralina), il trazodone rappresentano i farmaci di scelta. Gli SSRI (in particolare fluvoxamina e sertralina) e la clorimipramina sono i farmaci di prima scelta per le manifestazioni osses-sivo-compulsive; i primi hanno dato risultati confortanti anche nelle manifestazioni fobiche.

Il gabapentin è un’anticonvulsivante, ma è anche il farmaco più prescritto per usi off-label. Viene usato per molte patologie, dal dolore neuropatico all’ansia.

Il gabapentin viene usato in associazione ad altri farmaci nei disturbi d’ansia. Il pre-gabalin è un analogo strutturale del GABA, sebbene non sia attivo a livello del recettore GABAergico. Il pregabalin si lega a livello dei canali del calcio nei tessuti del sistema nervoso centrale ed agisce come un modulatore presinaptico dell’eccessivo rilascio di diversi neurotrasmettitori eccitatori nei neuroni ipereccitati. Il pregabalin al dosaggio compreso tra 300 e 600mg/die è risultato superiore al placebo e comparabile al lorazepam 6mg/die, alprazolam 1.5mg/die e venlafaxina 75mg/die nel migliorare i sintomi ansiosi e depressivi nei pazienti con disturbo d’ansia generalizzato in forma moderato-grave (53).

La letteratura esistente concorda nell’individuare nelle benzodiazepine una classe da utilizzare raramente e con estrema cautela sulle persone con disabilità intellettive. Questa popolazione presenta rischi molto più alti di quelli riscontrabili nella popolazione generale. È invece comune il reperto di un frequente e consistente utilizzo, soprattutto in ambito istituzionale. L’indicazione elettiva è rappresentata dall’insonnia. Quando inevitabile, l’impiego dovrebbe orientarsi verso la molecola con caratteristiche di cinetica e dinamica più adatte alle esigenze specifiche e dovrebbe essere sospeso prima possibile, con una riduzione graduale del dosaggio. Si ricorda che l’efficacia clinica non è dimostrata per periodi superiori alle 4 settimane.

Si invita inoltre a fare attenzione all’incidenza particolarmente elevata di effetti paradossi (eccitamento, irrequietezza, agitazione psicomotoria, acatisia, compromissione cognitiva fino a fenomeni allucinatori e stati confusionali.). Le benzodiazepine possono precipitare delle reazioni paradossali di irritabilità e di aumentata aggressività in 10-15% dei pazienti con RM (54). Sarebbe, inoltre, più frequente il rischio di dipendenza dal farmaco. Per questi motivi ne viene da più parti raccomandato un uso cauto e mirato.

d. Disturbi comportamentali

Il trattamento dei disturbi comportamentali gravi ed in particolare delle condotte autolesive appare particolarmente complesso, sia per la complementarietà dei diversi fattori in gioco, sia per la frequente resistenza dei sintomi al trattamento.

Il primo passo per un intervento corretto è quello di individuare se il sintomo è secondario ad un disturbo fisico (epilessia, ipertiroidismo, algie, ecc.) o psicopatologico (depressione, psicosi, disturbo della personalità); in questi casi il trattamento riguarderà la malattia principale. In quelle forme nelle quali il disturbo sembra primario l’intervento si basa su un’analisi funzionale del sintomo, vale a dire del suo ruolo nel contesto personale e sociale del soggetto; un’osservazione individuale e sociale potrà consentire di individuare meccanismi sulla base dei quali il sintomo si automantiene (ad esempio distorsioni relazionali all’interno del nucleo familiare). Tali situazioni potranno essere oggetto di interventi specifici, sull’ambiente o sul soggetto, secondo le sue capacità. Nei soggetti con minore compromissione cognitiva è possibile un intervento psicologico, psicoterapeutico o psicosociale, volto a modificare in modo attivo e consapevole le modalità di risposta del soggetto ad eventi interni ed esterni. Nel caso di soggetti più gravi sarà invece opportuno un intervento centrato sul comportamento, volto a rimuovere le situazioni scatenanti, a ridurre i rinforzi positivi legati al comportamento aberrante ed a insegnare vie alternative per ottenere lo stesso rinforzo.

Gli interventi farmacologici hanno avuto negli ultimi anni un forte impulso, in particolare nell’ambito dei disturbi auto-eteroaggressivi. I trattamenti farmacologici proposti sono rappresentati dagli antipsicotici atipici (risperidone, olanzapina, aripiprazolo, clozapina), gli stabilizzatori dell’umore (litio, valproato, lamotrigina, carbamazepina), gli SSRI (fluoxetina, sertralina), il trazodone, il buspirone, il naltrexone, i P-bloccanti, la clonidina. È frequente la farmacoresistenza.

Il comportamento aggressivo è il motivo più comune per il rinvio psichiatrico di persone con ritardo mentale (55). I pazienti con ritardo mentale dovrebbero subire un’analisi diagnostica dettagliata per eliminare le cause mediche o psichiatriche specifiche di aggressività. Per quanto riguarda l’autoaggressività è necessario escludere le manifestazioni secondarie a disturbi fisici, a contesto ambientale e l’inefficacia degli interventi comportamentali.

Se non viene trovata nessun’eziologia specifica, la terapia comportamentale dovrebbe essere il metodo iniziale. La maggior parte dei pazienti, tuttavia, sono curati empiricamente con antipsicotici. un settore nel quale la somministrazione degli antipsicotici atipici è apparsa particolarmente efficace è stato quello del trattamento dell’aggressività, intesa come dimensione psicopatologica. Si tratta di una modalità applicativa transnosografica di questi composti, cioè indipendente dallo spazio categoriale nel quale la dimensione si colloca. Infatti, molte evidenze cliniche sembrerebbero indicare con chiarezza che l’effetto degli atipici sull’aggressività può essere considerato un effetto di natura diretta, cioè non secondario alla loro attività sedativa, né a quella antimaniacale, né a quella antipsicotica.

Sul piano operativo generale tuttavia, considerando che l’impiego degli antipsicotici atipici per la gestione dei comportamenti aggressivi si verifica in un contesto transnosografico particolarmente allargato, va comunque sottolineato che il loro uso per questi scopi sarà prevalentemente di add-on, all’interno di strategie di trattamento polifarmaceutiche più complesse (51).

Per orientare la prescrizione, sono stati identificati gruppi di sintomi che accompagnano gli scoppi aggressivi e che possono essere classificati nei profili di comportamento sensibili a una determinata classe di farmaci. Per esempio, i pazienti con tendenze ossessive e ritualisti-che, che diventano aggressivi quando sono interrotti, sono considerati ad avere un disturbo d’ansia e dovrebbero rispondere ad un inibitore selettivo della ricaptazione della serotonina. I pazienti con labilità o collera affettiva severa, che dura lunghi periodi, possono essere considerati maniacali o ad avere un disturbo d’umore e dovrebbero rispondere al litio o ad un anticonvulsivante. I pazienti con manifestazioni paranoide, deliri o allucinazioni possono richiedere la presa in considerazione dell’uso di un antipsicotico.

Quando non c’è una chiara evidenza di mania o di un processo psicotico sottostante è indicata una prova iniziale con un antidepressivo serotonergico. Gli antidepressivi possono migliorare gli scoppi aggressivi in pazienti con un disturbo depressivo o di ansia di fondo. L’uso di un antipsicotico può essere necessario, quando gli scoppi aggressivi diventano severi. La consultazione psichiatrica è raccomandata, quando i tentativi iniziali con antidepressivi sono falliti, è sospettata la mania o è presente un processo psicotico (55).

e. Demenza

La cura ed il trattamento dei pazienti con SD e malattia di Alzheimer sono simili a quelli per la popolazione generale. Poiché, a volte, è difficile differenziare la pseudodemenza da demenza e perché la depressione può coesistere con la demenza, può essere utile una prova terapeutica con un SSRI (56). Molti dei sintomi clinici associati alla demenza possono essere trattati. Le crisi epilettiche dovrebbero essere trattate con la terapia standard anticonvulsivante; l’insonnia con sedazione blanda; l’aggressività, l’irritabilità e le manifestazioni psicotiche con farmaci antipsicotici; gli stati depressivi con antidepressivi.

Gli inibitori dell’anticolinesterasi (AChE) (donepezil, rivastigmina, galantamina) sono considerati farmaci che possono rallentare il deterioramento cognitivo della DAT sia nella popolazione generale sia nella popolazione con SD.

Anche se non sufficientemente studiato nel campo del RM vi è una crescente prova che l’intervento psicologico/comportamentale può aiutare gli adulti con demenza nella popolazione generale (57-58). La terapia di reminiscenza, la terapia di riorientamento nella realtà e la terapia comportamentale (terapia occupazionale compresa) possono mantenere le abilità correnti e ridurre il deterioramento.

È necessario, inoltre, il supporto dei caregivers. La maggior parte degli adulti con SD e demenza è residenziale. L’educazione, il supporto infermieristico e la maggior partecipazione dei servizi medico-sanitari primari possono insieme permettere alle persone con demenza di essere gestiti più lungamente all’interno delle loro case e far ritardare la necessità di istituzionalizzazione.

CONCLUSIONI

L’intervento psichiatrico nelle persone con SD deve assicurare la supervisione e l’assistenza tecnica ai gruppi di lavoro sociosanitari, ai colleghi con cui, ad ogni titolo e livello, si trovino a collaborare, ai medici di base, ai caregivers ed ai familiari, tenendo conto di volta in volta delle caratteristiche individuali del paziente.

Con riferimento più specifico all’intervento psicofarmacoterapeutico si individua la necessità di attenersi alle seguenti specifiche raccomandazioni legate al ritardo mentale associato alla SD:

- formulare una diagnosi di RM secondo criteri internazionalmente riconosciuti (AAMR, DSM-IV TR, ICD-10);

- organizzare un progetto riabilitativo ed un piano terapeutico per ogni persona con RM che presenta sintomi o sindromi psicopatologiche. Ciò permette di valutare, tramite un’opportuna raccolta di dati, tutti i fattori che concorrono alla comparsa di sintomi psicopatologici o comportamenti aberranti e al tempo stesso tutti i possibili strumenti di intervento terapeutico (psicoterapie, terapie educative, interventi socio-educativi);

- ricordare che la terapia psicofarmacologica è una terapia aggiuntiva, non una terapia esclusiva, e che essa trova il suo razionale d’azione in un preciso piano terapeutico, che ne individui indicazioni, durata, modalità di vigilanza e gestione di eventuali effetti collaterali;

- porre particolare attenzione al rispetto dei diritti umani;

- assicurarsi che l’individuo e i suoi familiari/caregivers possano partecipare allo sviluppo del piano terapeutico e forniscano un consenso informato;

- accertarsi che la terapia non sia usata in modo eccessivo, per punizione, per convenienza dello staff, come sostituto di servizi o in dosaggi che interferiscano con la qualità di vita dell’individuo;

- garantire una continua formazione ed informazione dell’intera equipe d’intervento;


È opinione ormai universalmente condivisa che le persone con RM sono troppo spesso, oggi come in passato, il bersaglio di terapie con farmaci psicotropi incongrue e gravate da pesanti effetti collaterali.

Già nel 1995 si è tenuto presso l’Università dell’Ohio (USA) un’importante Conferenza, i cui lavori sono stati pubblicati nel 1998, che si è posta lo scopo di raccogliere l’esperienza clinica internazionale in questo campo.

I promotori della Conferenza hanno descritto in questo modo la ragione e lo scopo della loro iniziativa: “(...) una percentuale elevata di persone con RM è affetta anche da malattia mentale oppure manifesta un disturbo del comportamento. Si dice di queste persone che sono interessate da una Doppia Diagnosi. Molti medici sono professionalmente preparati o nel campo del RM o nel campo delle malattie mentali, ma non in entrambi. Poiché non vi è una competenza diffusa in entrambe le aree, i medici compiono un numero relativamente elevato di errori nel curare le persone con Doppia Diagnosi. Questi errori costano milioni di dollari e sono estremamente frustranti per le famiglie. Questi errori conducono a ricoveri non necessari e ad un’assunzione eccessiva di farmaci. Il numero di farmaci psicoattivi prescritto è eccessivo. i farmaci sono somministrati a tempo indefinito senza che si programmi il termine dei trattamenti. Possono esservi rilevanti effetti collaterali.” Uno dei risultati di questa Conferenza è stata la diffusione di una serie di Linee Guida che indirizzano l’attività del medico prescrittore. Esse sono le seguenti:


A. Condotte da perseguire:

- Considerare psicoattivo qualunque farmaco prescritto per migliorare l’umore, lo stato mentale o modificare il comportamento.

- Prescrivere un trattamento con farmaci psicoattivi solo all’interno di un piano di trattamento multidisciplinare.

- Prescrivere un trattamento con farmaci psicoattivi solo in presenza di una diagnosi psichiatrica e solo dopo aver portato a termine una valutazione diagnostica esaustiva comprendente una valutazione del significato funzionale del comportamento.

- Ricercare un consenso informato scritto dell’individuo oppure di chi si prende cura di lui e stabilire un’alleanza terapeutica con chi è coinvolto nell’organizzazione dell’assistenza alla persona.

- Controllare l’efficacia del trattamento definendo, in modo empirico, indici di comportamento oggettivamente rilevabili e misure della qualità della vita.

- Compiere un monitoraggio degli effetti collaterali usando strumenti di valutazione standardizzati.

- Compiere un monitoraggio dell’insorgenza della discinesia tardiva usando metodi di valutazione standardizzati se prescritti antipsicotici oppure altri farmaci che bloccano i recettori dopaminergici.

- Condurre un riesame clinico e dei dati oggettivi sulla base di un programma sistematico.

- Utilizzare la dose minima efficace.

- Valutare la pratica prescrittiva e il monitoraggio attraverso l’affiancamento di un gruppo di lavoro.


B. Condotte da evitare:

- Non prescrivere farmaci psicoattivi per assecondare le richieste dell’ambiente di vita, come alternativa a programmi psicosociali significativi oppure in quantità tali da interferire con la qualità della vita.

- Evitare cambi frequenti dei dosaggi oppure del tipo dei farmaci.

- Evitare l’associazione di più farmaci della stessa categoria e ridurre al minimo le associazioni di più farmaci per limitare al massimo gli effetti collaterali.

- Ridurre il più possibile: le prescrizioni di farmaci al bisogno; l’uso di sedativi-ipnotici a lunga durata di azione; l’uso protratto di benzodiazepine; l’uso di antipsicotici ad alte dosi; l’uso di anticolinergici (59-60).

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Inquadramento clinico, chirurgico e riabilitativo della persona con sindrome di down
Inquadramento clinico, chirurgico e riabilitativo della persona con sindrome di down
Umberto Ambrosetti - Valter Gualandri
VERSIONE EBOOKLa sindrome di Down è una patologia nota da tempo nei suoi aspetti morfologici, neuropsichiatrici ed organici. La presente raccolta di saggi, basati sull’attenta analisi della letteratura specialistica filtrata dall’esperienza diretta di ogni Autore, vuole essere una puntualizzazione per il Medico di base e per lo Specialista. Si è cercato di fornire uno strumento agile, ma completo e scientificamente aggiornato, per potere affrontare le varie patologie che non sono “speciali” perché colpiscono una persona Down, ma vanno inquadrate in una cornice particolare in quanto presenti in un soggetto con caratteristiche organiche e cliniche “particolari”. Questo testo non vuole essere uno strumento che induca ad una eccessiva medicalizzazione delle persone Down, le quali non debbono essere considerate “pazienti” ma individui soggetti a rischi clinici polimorfi, rischi che dobbiamo individuare e controllare, esercitando una medicina preventiva a tutti i livelli. Il lavoro, che ha visto impegnati un gran numero di esperti quotidianamente coinvolti nei vari ambiti specialistici per migliorare le condizioni di vita di queste donne e uomini vuole essere di aiuto nella comprensione e gestione delle manifestazioni di questo complesso quadro clinico provocato da una piccola quantità di DNA in eccesso sul cromosoma 21.