Capitolo 1
In Che Tempo Viviamo

Il mondo è cambiato, molti problemi no

Quando ho dovuto scegliere io cosa fare, cosa fare da grande, dopo il liceo scientifico, non avevo il minimo “fuoco dentro”, non ero preparato, ero confuso e ho scelto più che altro a caso, sfruttando le poche informazioni che avevo2. Erano gli anni Novanta, molti tra i lettori non erano ancora nati, quindi ti spiego quali erano le principali differenze rispetto al mondo di oggi, per lo meno per un adolescente che sta diventando adulto e inizia a prendere le prime decisioni importanti, all’alba della tanto attesa maggiore età. Perché questa descrizione del passato? Per due motivi: farti capire come sia cambiato e continui a cambiare tutto sempre più rapidamente (a livello di tecnologia, abitudini, opportunità) e come temi e problematiche della tua età siano invece rimasti gli stessi, semplicemente immersi in un contesto nuovo, molto più veloce e ricco di prima. 


Veniamo a questa piccola introduzione storico/sociale del mondo in cui ho vissuto alla tua età. Le macchine andavano quasi tutte a benzina, quelle elettriche erano di plastica e si compravano nei negozi di giocattoli, non in autosaloni. Una in realtà arrugginiva nel museo dell’auto a Torino da decenni. I telefoni cellulari erano oggetti misteriosi stracari, roba da spacciatori di droga o ministri, e si iniziavano a vedere nei film polizieschi le prime videocamere, più come oggetti di fantascienza che come oggetti reali. La prima videocamera che hanno comprato i miei genitori si portava a spalla, registrava su supporti della grandezza di un libro (VHS 19 x 10.3 x 15 cm; 240 grammi). Una parte era simile a quelle che si usavano per girare i film, solo in miniatura, e parliamo di una miniatura di 40 cm di lunghezza, ed era collegata con un cavo a metà del videoregistratore, che mia mamma si portava a spalla con una tracolla delle dimensioni di una valigetta ventiquattrore molto resistente, robusta e pesante. Per orientarsi in città si chiedevano informazioni ai passanti, o si cercava di leggere le cartine della città: dei fogli ripiegati decine di volte su se stessi, che una volta aperte occupavano l’intero sedile del passeggero, impedendo molte volte al conducente di vedere la strada. Lo stesso per sentieri di montagna. O si incontrava qualcuno o si leggeva la cartina della provincia o della regione, con la differenza che, molte volte, più l’area rappresentata era grande, meno era dettagliata. Ma questa è un’altra storia. Per fare un aggiornamento di questi strumenti coloratissimi si dovevano comprare le versioni aggiornate, recandosi fisicamente in negozio, o alla pompa di benzina, pagando con altri pezzi di carta (quel denaro contante che si sta estinguendo oggi, sorpassato da carte di credito e mille Gpay PPay, TPay e chi più ne ha più ne metta). Tornando a noi, altre cose che dovresti considerare, per capire meglio da dove sono partito... mi viene in mente soprattutto che ci si incontrava sempre di persona e i social erano bar, pizzerie, discoteche, parchi, panchine, piazze, case di amici e simili. Francamente, non riesco a capire – e non sono il solo – come facessimo a darci appuntamenti in posti precisi e orari precisi sentendoci al massimo tramite telefoni FISSI, cioè... va beh, hai capito, o cabine telefoniche o telefoni di casa… No, non credo tu possa capire. Sembrano pratiche troppo distanti: ci si dava appuntamento l’ultima volta che ci si vedeva, a scuola o al parco, con data, luogo e ora dell’appuntamento seguente, e ci si incontrava come previsto. Non che non ci fossero i ritardatari, anche cronici a volte, ma comunque senza mandarsi posizioni Gmaps, ci si arrangiava sempre. 

Nonostante tutte queste differenze dal mondo di oggi, i dubbi e i pensieri di un adolescente di allora sono rimasti esattamente identici, così come sono rimaste le stesse le difficoltà che affrontavano uno studente all’università, un genitore e un insegnante.

Sogni?

Parte tutto da un sogno. Ogni grande impresa, grande opera, grande risultato parte sempre da un sogno, dall’immaginazione e dalla creatività di qualcuno. Questo “qualcuno” ha prima sognato/immaginato poi creduto di poter realizzare il sogno, trasformare in realtà la propria idea e, fondamentale, poi ha lavorato per farlo oltrepassando tutti gli ostacoli che gli si sono presentati davanti. Per questo motivo un passo fondamentale da compiere, per la propria realizzazione personale è sognare, sognare in grande. Siamo capaci tutti anche se molti non lo sanno o lo hanno dimenticato e abbiamo tutti non solo il diritto ma soprattutto il dovere di sognare. Poi, per realizzare i nostri sogni dobbiamo impegnarci. Potremmo quasi scrivere una formula della felicità: 


Sognare + Impegnarsi per realizzare i propri sogni = Felicità 


Non sei convinto? E se mettiamo al fondo dell’equazione almeno la Soddisfazione? Che ne dici? Sogni, ti impegni per raggiungere i tuoi sogni e? Come ti sentiti mentre lavori per i tuoi sogni? Quanto meno soddisfatto. Giusto?


Poi ci torneremo, ma ci tengo a non essere frainteso: “se non hai sogni potrai sempre lavorare per quelli degli altri” (mia parafrasi della più celebre di Tony Gaskins). Non significa che chi lavora per se stesso ha necessariamente un sogno, e nemmeno che chi lavora per qualcuno non abbia sogni suoi. È molto probabile che sia così ma non è assolutamente una regola. Per chiarire questo concetto che non vorrei proprio venisse frainteso, uso un esempio personale:

ho aperto partita iva, ho iniziato a collaborare con aziende che volevano un agente, un rappresentante commerciale in Repubblica Ceca (all’epoca vivevo in questo bellissimo paese). Ottimo. Io avevo P. IVA quindi in teoria libertà di fare cosa volevo, quindi di iniziare a sognare e impegnarmi per realizzare i miei sogni. In realtà, invece, ho lavorato per il sogno di queste aziende (avere un rappresentante in Repubblica Ceca). Ma il mio sogno? Non avevo idea neanche di doverne avere uno, nemmeno di poterne avere uno. Per me esisteva solo: ho bisogno di guadagnarmi da vivere = ho bisogno di lavorare = cerco chi ha bisogno e lavoro per loro.

Potevano essere radiatori, piastrelle, letame, concimi, frutta, verdura, trick track e bombe a mano. Credevo che per me il prodotto o l’azienda fossero indifferenti. In effetti lo erano, ma per il motivo sbagliato: per me erano indifferenti perché volevo solo guadagnarmi da vivere, ma non mi interessava assolutamente niente il COME, e ancora meno l’“AIUTANDO CHI A FARE COSA”. In questo modo, senza un sogno mio, ho “tirato carretti”3 semplicemente perché qualcuno ne aveva bisogno, senza nemmeno chiedermi di cosa avessi bisogno io. Qualcuno potrà pensare “ma almeno ti guadagnavi da vivere”. In effetti l’ho fatto, ma prima di riuscirci mi sono dissanguato economicamente, ho rischiato tutto, ho perso tutto (un paio di volte) e mi è rimasto ben poco di quegli anni, a parte le esperienze. Quelle per fortuna, positive o negative che siano, fanno sempre bene e nessuno potrà mai portarcele via. Il punto è che non stavo andando in nessuna direzione. La “libertà finanziaria” che poi ho iniziato a inseguire, era solo un mezzo e non l’ho mai raggiunta perché non avevo un vero fine. Mi mancava un solido “perché”, ma lo vedremo più avanti nel capitolo della lettera P. Non a caso sarà il primo pilastro del tuo/nostro ponte. Rendermi conto di aver commesso questo errore è stato uno dei motivi che mi hanno portato a scrivere questo libro. Quando ho trovato la soluzione ho sentito la necessità, il dovere, l’obbligo di aiutare più persone possibile a non commettere gli stessi errori.


Il problema rimasto

Visto il punto di partenza, con navigatori di carta, telefoni fissi, vocabolari pesanti quanto un mattone pieno si potrebbe pensare che io abbia avuto problemi diversi dai tuoi, ma in fondo le radici dei miei problemi – come ti ho anticipato - sono molto attuali, e non sono state sradicate né dai social, né da YouTube, né da zio Google, né tantomeno da Tinder e compagnia. Altrimenti sareste tutti più felici di come eravamo noi negli anni Novanta, sapreste già ognuno cosa fare da grande e non ci sarebbero cambi di facoltà a metà del primo anno, rientri a casa con la coda tra le gambe, carriere universitarie finite a stenti. O, quel che è peggio, bombe a orologeria che scoppieranno attorno ai quaranta-cinquanta, salutando malamente il capo, la moglie o il marito, la suocera e pure il cane o il gatto... non necessariamente in quest’ordine. A chi mi sto riferendo? A chi si laurea veloce come un treno, inizia a lavorare, per quanto possibile accelera, lavora sempre di più, guadagna (quando gli va bene) sempre di più, mette su casa, famiglia, mutuo, casa in montagna, al mare... poi un giorno si guarda allo specchio, vede le rughe, si sente vecchio/vecchia e pensa: “Ma che cosa diamine sto facendo!!??” Devo dire che, statistiche alla mano, la sindrome da “bomba a orologeria” (io la chiamo così) capita molto più spesso ai maschi. La chiamano crisi di mezz’età, perché capita in mezza età di sbroccare e resettare tutto e tutti. Ma la causa non è la mezza età, la causa è come ci si arriva, se si è fatto cosa si voleva, se abbiamo seguito o represso i nostri sogni o abbiamo lavorato duro per quelli degli altri.4


Potrebbe anche stupire e a volte far ridere vedere persone sbroccare in questo modo, a volte ho riso anche io. A forza di vederne, non mi stupisco più ma mi spiace sempre, sia per loro sia per le persone che hanno vicino. Vorrei fare il possibile quindi per contenere e ridurre al minimo possibile questi petardi impazziti e imprevedibili. Tornando a noi quindi, so bene come stai, non solo perché ci sono passato, ma anche perché è un sistema (una chiocciola negativa) che non si è fermato al periodo universitario, ma si è ripetuto e ripetuto e ripetuto, da un lavoro all’altro, una carriera all’altra, nella mia vita. Finché non ho riconosciuto lo schema, ed estirpato il problema invertendo finalmente il senso della chiocciola, cioè della dinamica a spirale in cui mi ero messo. [tranquilla, tranquillo, andando avanti nella lettura ti spiegherò tutti quei termini che forse senti per la prima volta] Questo risultato l’ho ottenuto dopo non pochi reset. 

Altro motivo per il quale scrivo questo libro è che la mia generazione di fenomeni – io per primo – deve prendersi la responsabilità di questo perdurare degli stessi problemi. È nostra responsabilità, di noi genitori, di noi insegnanti, di noi vicini di casa, di noi giornalisti, di noi pessimisti, filtrati (dotati di filtri e paraocchi) che non siamo ancora riusciti a renderti la vita più semplice di come lo è stata per noi.5 Possiamo prendercela con chi ci ha fatto da padre, madre, insegnante, zio finché vogliamo, ma continuare a fare gli stessi errori non ci rende migliori, e chi rischia di pagarne le conseguenze sei tu. Perché tutto questo? Perché molti dei problemi che avevamo e che continuano a esistere non li abbiamo riconosciuti. Il che è molto peggio che non risolverli, perché il non riconoscerli non ti dà la possibilità nemmeno di provare a risolverli. Abbiamo nascosto questi problemi dietro luoghi comuni, modi di dire, proverbi mal interpretati, teoremi senza condizioni di esistenza. Per chi non conosce questo gergo matematico, in modo semplificato, un teorema è un’affermazione che è vera se sono verificate certe condizioni. Prenderla per buona senza verificare le condizioni è come parlare credendo di essere capiti, in italiano, parlando a eschimesi... non funziona, eppure alcuni pensano che basti scandire le parole... Quindi eccomi qui: con le mie esperienze da universitario fuoricorso (ma comunque uscito dal tunnel con una laurea in ingegneria in mano), un curriculum da Resp. di produzione di tutto rispetto (me lo dico io), quindici anni vissuti all’estero, prima come ingegnere e poi come libero professionista/CEO a vendere di tutto di più a chiunque (no, eschimesi non ne ho incontrati, solo vietnamiti, cechi, slovacchi, polacchi ...). Per poi approdare dopo un pallet di libri letti (molti dei quali anche capiti! E qualcuno applicato pure!), decine di migliaia di euro investiti in corsi di formazione, pratica pratica, pratica e pratica, dicevo, per arrivare a diventare il coach che sono nato per diventare.


Come faccio a sapere che sono nato per diventare il coach che sono adesso? Semplice, è un po’ come quando ci si innamora: rimbambinamento cosmico, pupille dilatate, battito accelerato, fiato corto, poca voglia di dormire, sempre con l’ormone della crescita a livelli storici (nell’innamoramento gli ormoni sono altri, nel coaching non sarà l’ormone della crescita fisica ma sicuramente la voglia di migliorarsi e crescere costantemente, come ne dipendesse della mia vita, come mi mancasse l’aria senza leggere un altro libro o senza ascoltare il prossimo audiocorso). Quindi, sì, o è una sbornia con postumi che durano anni (e spero non finiscano mai), oppure, come credo, ho finalmente trovato il mio posto nel mondo.6


Libero dai filtri?

Quindi quale è il problema che non è ancora stato risolto? C’è più di un problema, qui vi elenco i principali: il problema di prendere decisioni con la propria testa, in base ai nostri sogni, non in base a quelli di altri, il problema di distinguere quello che vogliamo veramente da quello che vogliamo perché ci hanno insegnato così. Il problema di avere la mente libera da freni, imposizioni, filtri, paure altrui, paure nostre inutili (perché dovremmo tenerci quelle sane che ci salvano la vita, e liberarci da quelle che ci fanno preoccupare per cose che mai accadranno, ma vedremo più avanti come distinguere le une dalle altre, tranquillo, ne riparlo meglio più avanti). 

Il problema principale quindi è sognare in grande, capire che possiamo raggiungere qualunque obiettivo se ci impegniamo, ci applichiamo, abbiamo la pazienza di far crescere quello che abbiamo seminato e soprattutto se stiamo seminando ciò che è giusto per noi seminare

Ah si, ti ho sentito, ti stai ancora chiedendo di che filtri stavo parlando poco fa. Hai ragione, no non sono filtri per l’olio o l’aria della macchina. Ora ti spiego. Non è il caso di entrare nel dettaglio ma almeno ti do un’infarinatura del concetto che riprenderò nel libro. Mi spiego con un esempio: ti è mai capitato di parlare con persone che vedono sempre tutto nero, negativo, pessimista (e si dicono realisti)? Sì? Una persona del genere ha un filtro davanti agli occhi che gli fa vedere tutto nero, proprio come se guardasse attraverso occhiali con lenti nere. Stessa cosa una persona che “vede tutto rosa”. Chi ha ragione? La domanda è inutile, perché al mondo ci sono sia cose nere sia cose rosa. Il punto è che se ci concentriamo su un colore, lo riconosceremo sempre, mentre invece scarteremo gli altri semplicemente non ponendo loro attenzione. Se cresco in una famiglia pessimista, molto probabilmente il “filtro pessimismo” – chiamiamolo così – lo erediterò anche io semplicemente osservando e copiando i miei genitori. Stessa cosa se cresco in una famiglia di ottimisti. Sta a me riconoscere questi filtri e decidere consapevolmente quali voglio tenermi e quali voglio cambiare.

Metodo Ponte
Metodo Ponte
Come laurearsi senza rinchiocciolirsi